LA NOBILTA’ DELLA POLITICA
MARCO PANNELLA
IL RITRATTO
Il divorzio, l'aborto, i diritti degli omosessuali,
l'obiezione di coscienza antimilitarista, le battaglie contro la pena di morte
e la partitocrazia, per la pace e la fame nel mondo. Un grande del Novecento,
che è passato da Togliatti a Renzi, da De Gasperi a Craxi e Berlusconi. Amici,
nemici, passioni e la biografia di Giacinto detto Marco
Ha dato il divorzio all’Italia. Quando i poteri
forti cattolici, dal Vaticano alla Dc alle sue organizzazioni
collaterali, non ne volevano sapere e frenavano, predicando tradizione e
prudenza sul tema. Correvano gli anni Settanta, con le donne abbandonate
alla clandestinità e alle mammane dei sottoscala e dei tuguri dell’Italia
conservatrice e provinciale. Destino infame per le sfortunate decise o
costrette a liberarsi di maternità indesiderate o impossibili da sostenere. A
loro diede l’aborto legale e con esso l’assistenza delle strutture
sanitarie pubbliche per affrontare e mitigare il dramma. Ha inventato le
battaglie per i diritti civili, per l’obiezione di coscienza
antimilitarista, per la dignità e i diritti degli omosessuali
e delle donne. Ha combattuto la pena di morte, avversato la partitocrazia
quando gli altri intascavano tangenti, ha alzato la bandiera del pacifismo
e della fame nel mondo mentre in Parlamento e fuori sperperavano
scannandosi per lottizzare Rai e aziende di Stato. Questo e
altro, tanto altro ha regalato all’Italia. Ricavandone sovente sorrisi beffardi
e plateali offese. Spesso al limite della sopportazione.
Sempre in
minoranza, eppur capace, con la sua pattuglia radicale, di trascinare masse
quando serviva e segnare nel profondo animo e storia del nostro Paese
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Se ne va Marco Pannella, altro grande del
Novecento politico italiano. Probabilmente l’ultimo di una generazione
preziosa. L’ultimo che ha avuto possibilità e modo di misurarsi e scontrarsi
con i padri fondatori e leader dell’Italia repubblicana. Togliatti e De
Gasperi, Einaudi e La Malfa, Moro e Berlinguer,
Fanfani e Craxi. Con loro ha incrociato le armi della polemica.
Ha discusso, litigato, ma anche costruito. Si è confrontato in un lasso di
tempo straordinario con Benedetto Croce e Silvio Berlusconi, Ignazio
Silone e (persino) Matteo Renzi. Sempre in minoranza, eppur capace,
con la sua pattuglia radicale, di trascinare masse quando serviva e segnare nel
profondo animo e storia del nostro Paese.
Mentre gli
ospiti parlavano a lui veniva tanto di chiudere gli occhi e assentarsi,
abbandonandosi al sottile filo di pensieri dal quale pareva sempre riemergere a
fatica. Riemergeva parlando in dialetto stretto abruzzese tra lo stupore degli
astanti
Adesso che è andato, certamente rivaluteremo il Marco.
Sta accadendo, è già accaduto, anzi. E per questo la battuta corre,
maledettamente facile. Guardate la fila di quelli che sono andati a rendergli
omaggio nell’affollata mansarda romana di via della Panetteria. Massimo
D’Alema, Fausto Bertinotti, Berlusconi, lo stesso Renzi.
Tutti lì per il commiato finale, per le parole di circostanza e le lodi.
Abbozzi di conversazioni. Semplici abbozzi confusi. Perché Marco assentiva,
certo, interloquiva, bofonchiava anche chiedendo agli amici e collaboratori più
stretti che lo assistevano di preparare comunicati su quelle visite illustri.
“Forza compagni!”. Comunicatore instancabile, fino all’ultimo: “Telefonatelo
alla radio”, il continuo refrain. Grande Pannella, anche se mentre gli ospiti
parlavano a lui veniva tanto di chiudere gli occhi e assentarsi,
abbandonandosi al sottile filo di pensieri dal quale pareva sempre riemergere a
fatica. Riemergeva parlando in dialetto stretto abruzzese tra lo stupore degli
astanti. Che abbondanza di vita, di idee e ricordi. E che spreco per un Paese
umiliato da una classe dirigente distratta e sbiadita. Quegli ospiti importanti
dicevano infatti di rimpiangere di non averlo visto senatore a vita. E quasi
non riuscivano a perdonarsi per quel mancato laticlavio. Mentre il vecchio
Marco prendeva a raccontare, in quel dialetto stretto e incomprensibile,
confidando preziosi scampoli della sua infanzia lontana. Salvo riavvolgersi
in se stesso, sempre in quel sottile filo. E assentarsi di nuovo.
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“Dire che
con la ragazza puoi chiavare e con l’amico devi parlare, vuol dire dividere in
due la propria vita. Un’assurdità”
“Sono un bastardo”, ha detto di sé. Testardo
padre abruzzese, madre francese “nata nella Svizzera tedesca”, per “metà
provenzale e metà del Valais”. I bastardi, ha spiegato, “sono forti e
intelligenti. Ma io non credo di essere un fenomeno”. Mai sposato, legato a
Mirella Parachini (“La donna della mia vita”), felicemente bisessuale
(“Dire che con la ragazza puoi chiavare e con l’amico devi parlare, vuol dire
dividere in due la propria vita. Un’assurdità”), qualche figlio sparso qua e
là con mamme che non si sono più fatte rivedere, Giacinto Pannella
detto Marco, nasce a Teramo il 2 maggio 1930. Il papà (Leonardo)
piccolo proprietario terriero e ingegnere, lavora in banca, nella sua città.
“Cioè nel profondo Sud, perché questo erano gli Abruzzi di allora”, ha
detto Pannella. Infanzia felice, “con molte donne, zie e contadine che mi
accudivano”, giochi e allegria. E uno zio prete (“Da noi, come in tutte le famiglie
del ceto medio nel Mezzogiorno, una o due persone per ogni generazione
entravano nella Chiesa”), ma soprattutto colto e letterato, animatore di una
rivista sulla quale ebbe modo di scrivere persino Benedetto Croce.
Si parlava francese in casa Pannella, con Marco attaccatissimo ai suoi genitori
che da Teramo seguì poi a Roma. Frequentando il liceo (“Non ero un bravo
studente: se un libro o una pagina mi appassionavano mi ci buttavo sopra, se
no me ne fregavo”) e iscrivendosi a Giurisprudenza.
Diventa un leader studentesco prima nell’Unione
goliardica italiana e poi nell’Unione nazionale universitaria rappresentativa
italiana, si iscrive a 15 anni al partito liberale frequentando la sede
nazionale di via Frattina. Studi disordinati, si laurea ad Urbino, università
più facile e abbordabile, con una tesi neanche scritta da lui: “La discussi per
quattro ore, con undici professori”, racconterà. Riguardava “l’articolo 7
della Costituzione: il Concordato. Me l’ero fatta scrivere da alcuni amici, un
capitolo ciascuno. Io non l’avevo neanche letta tutta”. Vita essenziale,
spartana. “Non avevo neanche i soldi per il tram e mi facevo tutta Roma a piedi
due volte al giorno”, ricorderà Pannella, che ogni tanto aiutava il padre per
rimediare soldi. “Alto e magro come uno spettro, lavorava con una capacità
incredibile”, ha raccontato l’ex segretario radicale Sergio Stanzani,
ricordando il Marco di quegli anni: “Era diverso dagli altri: aveva una
maturità e una consapevolezza superiore. Ma soprattutto possedeva già l’intransigenza
interiore che lo distingue”.
Certo, il partito liberale non miete successi. Tanto
che alle elezioni del 1948, pur alleandosi con i qualunquisti di Guglielmo
Giannini, ottiene un misero 3 per cento. Ma Pannella si fa notare. “Fin
dagli anni più acerbi della sua vita spiccava per il gusto della polemica, per
la qualità degli argomenti e, come avrebbe detto Einaudi, per il felice
paludamento verbale con cui difendeva le proprie tesi”, spiegherà un
vecchio senatore del Pli, Augusto Premoli: “A queste doti non
trascurabili, aggiungeva la fantasia, il fiuto nello stanare e nell’inventare
temi che avrebbero fatto presa sull’opinione pubblica, e uno spiccatissimo
senso del teatro. Per cui ad ascoltare Pannella, e ne valeva la pena, si aveva
sempre l’impressione di far parte di una platea di spettatori non del tutto
convinti, ma certo attratti dal livello della recita”.
“Perché nei
giornali ci sono idee che non appaiono, idee che prendono corpo dentro di te,
che diventano te stesso”
Legge Nietzsche, Tolstoj, naturalmente Croce
e gli altri padri del pensiero liberale. Tanti amici di Pannella si
invaghiscono di Marx, che lui liquida lapidariamente: “I miei compagni
lo leggevano, ti citavano immediatamente la quarta o quinta risposta a Feuerbach.
È la segnalazione che si fa liturgia o litania. Io non ho letto Marx, ma
ne ho preso quel che mi occorreva”. Nel frattempo legge i giornali, il suo pane
quotidiano, come scrive Marco Suttora nella biografia del leader
radicale. Che spiega: “Perché nei giornali ci sono idee che non appaiono, idee
che prendono corpo dentro di te, che diventano te stesso”.
Si faceva politica alla buona e con pochi mezzi in
quegli anni studenteschi. Sulle altre sponde dei movimenti giovanili si
muovevano futuri leader come il comunista Achille Occhetto e il
socialista Bettino Craxi. Comincia a collezionare anche le amicizie che
lo accompagneranno nella sua avventura radicale, come Stanzani, Gianfranco
Spadaccia e Massimo Teodori. Pannella comincia a frequentare anche
la redazione del Mondo, conosce Arrigo Benedetti, fondatore con Eugenio
Scalfari dell’Espresso, entra in contatto con quelli che considererà
sempre i suoi maestri, Mario Pannunzio (“Era la moralità. La sua
indifferenza al potere fu il suo maggiore insegnamento”) ed Ernesto Rossi
(“Aveva previsto tutto: il corporativismo di Stato, la mano pubblica che dà
profitti a quella privata, il protezionismo”). Si imbeve del pensiero di Salvemini
e Gobetti, per non parlare dei fratelli Rosselli, uomini,
pensatori che citerà per la vita intera.
Nel 1955, con Pannunzio, Valiani, Scalfari,
Libonati e altri fonda il Partito Radicale. Grande seguito
sui giornali che contano, rinomati convegni come quelli del “Mondo”. Alle
elezioni, però, solo batoste. Come nel 1958 quando, facendo liste comuni con il
partito Repubblicano, riesce a spuntare appena un misero 1 per cento. La verità
la scrive Giuliano Zincone: “Quello radicale è un partito di notabili
insediati autorevolmente in alcuni organi di stampa. Non basta mettere insieme
bei nomi di professori universitari e di apprezzati professionisti per vincere
le elezioni”.
Un handicap, quello del minoritarismo, che, seppur
mitigato dai consensi delle grandi campagne di opinione, resterà per
sempre una caratteristica della creatura di Pannella. Che, da grande
anticipatore, l’anno successivo propone liste comuni di tutte le sinistre. Ma
neanche questa va. Anzi, il partito lo sconfessa, tanto da sentirsi costretto
ad abbandonare il campo emigrando in Belgio (lavora in una fabbrica di
scarpe) e poi in Francia, dove entra nella redazione del Giorno diventando
persino giornalista professionista (lui che per tutta la vita polemizzerà con
l’ordine).
Sono anni di profonda crisi per il partito radicale
che arriva persino sulla soglia dello scioglimento. Ma Pannella ne raccoglie i
resti e, nel 1963, ne diventa segretario. Inizia un lungo cammino: con Aldo
Capitini, Marco scopre l’impegno pacifista ma, soprattutto, con pochi
fedelissimi getta le basi per la sua battaglia più avvincente fondando la Lega
italiana per il divorzio. Che, anno dopo anno, contribuisce alla
crescita di quel grande movimento di opinione che nel 1970 contribuisce al varo
della famosa legge Baslini-Fortuna e poi a vincere, quattro anni dopo,
la grande sfida del referendum.
Nel frattempo, ecco il Sessantotto con la sua
sbornia rivoluzionaria. Anni che, scriverà Pannella, coincideranno “con il
nostro massimo isolamento politico”. Quando la borghesia italiana
strizzava l’occhio a Potere Operaio “perché i suoi figli stavano lì
dentro, noi polemizzavamo con Potop perché i loro cortei servivano solo a far
rincasare con due ore di ritardo gli operai edili romani stanchi morti dal
lavoro”. Giudizio duro, ma che non la dice tutta sull’appoggio che comunque
Pannella e i radicali diedero al movimento studentesco prima e ai gruppi
extraparlamentari poi, anche firmando come direttore responsabile i loro
giornali. Eppure, quanta polemica con i loro dirigenti, con quelli che con
tanto ardore avevano predicato rivoluzione e dittatura del proletariato salvo
poi rifugiarsi in più tranquilli lidi borghesi: “Dove sono finiti tutti
i leader del ‘68?”, si chiederà anni dopo Pannella. “Nell’industria
culturale, nella pubblicità, nel marketing. Loro che accusavano noi di essere
dei coglioni piccolo borghesi disinteressati alla lotta di classe”.
Arrivano gli anni Settanta. Pannella è ormai un
protagonista della politica nazionale. Imperversa sui giornali e in
televisione, dopo lo straordinario successo referendario del divorzio si getta
nella battaglia per l’aborto (vinta anche questa), entra in Parlamento
(1976) mentre incombono gli anni di piombo, quelli culminati nel
sequestro e nell’assassinio di Aldo Moro e nella promulgazione della
legislazione d’emergenza avversata duramente dal leader radicale. Nel 1979
diventa europarlamentare, due anni dopo ingaggia contro la Rai (“ladri
di notizie”) una dura battaglia per il diritto di informazione, promuove
referendum contro la caccia e l’energia nucleare, trasforma il
partito radicale in partito transnazionale e transpartito, lancia la campagna
per l’abolizione della pena di morte, sostiene i referendum (1990)
contro la legge elettorale proporzionale e l’introduzione del maggioritario. Si
allea nel 1994 con Silvio Berlusconi per rientrare in Parlamento (ma non
ci riesce), ma poi archivia anche l’alleanza con il centrodestra promuovendo la
campagna per la liberalizzazione delle droghe leggere. Ancora: sostiene
il Dalai Lama (di cui è amico) e il governo tibetano in esilio;
vara nel 2006 la Rosa nel pugno con i socialisti riapprodando nel
centrosinistra; lancia una grande campagna per la pace, la proposta per
l’ingresso di Israele nell’Unione europea, si candida persino
alla segreteria del neonato Partito Democratico venendo naturalmente
respinto.
Gandhiano e
non violento, autore di interminabili scioperi della fame e della sete per le
cause più disparate, arrestato più volte, processato e condannato
Questo e tanto altro che non si riesce a dire, ha
fatto Pannella. Gandhiano e non violento, autore di interminabili
scioperi della fame e della sete per le cause più disparate, arrestato più
volte, processato e condannato. Per i suoi atti di disobbedienza civile,
resistendo a pubblici ufficiali, fumando hashish in diretta tv, protestando in
Italia e all’estero, dalla Gran Bretagna alla Cecoslovacchia. E passando
ferragosti e Natali nelle carceri più sperdute d’Italia, nel frattempo facendo
eleggere nelle aule parlamentari tanti personaggi, autorevoli e non. A
cominciare da Leonardo Sciascia e Toni Negri, Enzo Tortora
e Domenico Modugno. Per non parlare di Ilona Staller, la
pornodiva Cicciolina. Una grande generosità nel valorizzare
figure ed eccellenze italiane, ma anche un gusto grande per la
provocazione. Un “genio” secondo alcuni, un “buffone” e un “impostore” per
tanti altri. “Il Gandhi di via Veneto” ha scritto l’Unità; un
“Frate laico”, l’ha invece definito Arrigo Benedetti; “Egonarcisista,
talento sprecato”, l’ha bollato l’amico di una volta Massimo Teodori;
“Uno con il complesso di Erostrato, ossessionato dal desiderio di far parlare
di sé”, ha sentenziato l’altro radicale storico Mauro Mellini.
Un uomo complicato, certamente, un politico
straripante. Che ha fondato partiti (da citare anche Radicali italiani e
Lista Pannella, Amnistia giustizia e libertà e Riformatori),
emittenti di prestigio (da Radio radicale a Teleroma 56) e
lanciato leader a ripetizione, dai deludenti Giovanni Negri, Daniele
Capezzone a Francesco Rutelli, alla ben più dotata Emma Bonino,
di cui ha contribuito a fare la fortuna politica (deputata, commissario
europeo, ministro, candidata al Quirinale) salvo poi vedersi negli ultimi anni
abbandonato (“E’ stato un matrimonio di interessi che ha giovato a entrambi”,
Teodori dixit). Che, come nessun altro politico italiano, ha speso la vita in
proteste, manifestazioni, lunghe marce e tante campagne: le più recenti, quelle
per il diritto umano e civile alla conoscenza e l’altra per la ragionevole
durata dei processi. Senza voler mai fare danni a nessuno: “Agli italiani”, ha
spiegato una volta, “non abbiamo mai procurato fastidi. Se organizziamo un
corteo, sfiliamo sui marciapiedi per non innervosire gli automobilisti”.
Di sé invece, oggetto di infiniti ritratti
giornalistici e varie biografie, ha detto: “Quando l’ho voluto, ho vissuto
bene. Ho abitato a Parigi in place des Vosges, a Roma in un
attico di palazzo Taverna. Poi ho capito che non ne valeva la pena e ho
imparato a vivere con le cose essenziali. Oggi la mia spesa più grossa sono le
sigarette: tre pacchetti al giorno”.
“Amo gli
obiettori, i fuorilegge del matrimonio, i capelloni sottoproletari
anfetaminizzati, i cecoslovacchi della primavera, i non violenti, i libertari,
i veri credenti, le femministe, gli omosessuali, i borghesi come me, la gente
con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione”
E poi il suo universo personale, le sue passioni, i
riferimenti che hanno animato le sue battaglie, i suoi ideali: “Amo gli obiettori,
i fuorilegge del matrimonio, i capelloni sottoproletari anfetaminizzati, i
cecoslovacchi della primavera, i non violenti, i libertari, i veri credenti, le
femministe, gli omosessuali, i borghesi come me, la gente con il
suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione”. E ancora: “Amo
speranze antiche come la donna e l’uomo; ideali politici vecchi quanto il
secolo dei lumi, la rivoluzione borghese, i canti anarchici e il
pensiero della Destra storica”. Quanto alla droga, per la legalizzazione della
quale tanto si è battuto, un giorno ha detto: “Fumare erba non m’interessa, per
la semplice ragione che lo faccio da sempre. Ho un’autostrada di nicotina e
di catrame dentro che lo prova, sulla quale viaggia veloce quanto di
autodistruzione, di evasione, di colpevolizzazione e di piacere consunto e
solitario la mia morte esige e ottiene”.
La morte, appunto. Al giornalista che lo chiedeva,
lapidario, in 18 parole, come le poesie che negli anni Cinquanta amava
comporre, così dettò il suo epitaffio: “Come posso dirvi che vado, senza
aver prima deposto un po’ di quello che avete accumulato in me”. Questo
ermeticamente disse immaginando di andare Giacinto Pannella detto Marco. Un
uomo complicato, un pensatore e un leader a cui la terra non
potrà non essere che lieve. Da abruzzesi non pentiti, ciao Marco.