Nella alienazione che impedisce il riconoscimento del proprio sé, dove in ogni vissuto della vita, in ogni rapporto intramondano l'ego è altro da sé, non si può far altro che accettare la vita, accettare la costrizione della nascita e della morte. L'istinto di conservazione e di sopravvivenza ( con Eros il segno più potente della volontà) esime dal ricorrere al pensiero nel discernimento critico del senso della vita. Questo tempo, il tempo della massima estensione della follia nichilista, non è ancora il tempo propizio perché l'umanità possa seriamente pensare a ciò che chiama vita. In questo contesto, ovvero in un mondo abbandonato dalla verità, pensare la vita sarebbe estremamente pericoloso. Senza più nessuna specie di Dio a cui aggrapparsi, l'umanità si troverebbe in uno stato di smarrimento e di disorientamento assai più grave di quello in cui già si trova.
Si sarebbe tentati di affermare che, allo stato delle cose, sia preferibile che prevalga la chiacchiera, che si creda che il non-senso abbia un senso.
Addirittura si potrebbe giungere a giudicare la follia un bene, se la follia permette di vivere una vita dove al dolore succede la noia, alla noia la disperazione, alla disperazione l'alienazione e così via. La felicità è assente, perché ciò che viene chiamato felicità o è semplicemente momentanea assenza di dolore o è il prodotto di allucinazioni della mente (si veda, a titolo esemplificativo, lo stato erotico-sentimentale dell'innamoramento). Si può allo stesso modo dire che la felicità è un sogno che perdura anche nello stato di veglia, o presunta tale.
Quando Leopardi afferma che la verità è un male e ad essa è preferibile l'illusione, coglie nel segno: se è la vita che si vuol salvare, allora è necessario che l'umanità continui a cullarsi nelle illusioni, a sognare. L'esser desti, l'esser nella verità, costringerebbe l'uomo a vedere nella vita il nulla, 'il solido nulla'.
Certo, la verità di cui parla Leopardi è la verità del pensiero nichilista (ovvero della intera filosofia), ma il senso delle sue parole rimane inalterato.
Ma se è l'ignoranza a salvare la vita, che vita è quella che viviamo?
Già abbiamo accennato che in essa è preclusa la felicità, ovvero l'aspirazione più alta dell'essere umano. Il che conduce conseguentemente alla conclusione che nella ignoranza l'uomo inconsciamente rinuncia alla felicità a favore di una vita segnata dal dolore e dall'angoscia. E vi è angoscia perché, sempre nella ignoranza, non si riesce a comprendere che 'la natura della vita è la morte'.
In Heidegger 'l'essere per la morte' che è costitutivo 'dell'esserci', sarebbe senz'altro un concetto logicamente inattaccabile, se non fosse per la particella 'per' che indica un movimento dell'essere verso la morte. E' la fede nel divenire che impedisce ad Heidegger di affermare semplicemente ma veritativamente che 'la vita è la morte' e 'la morte è la vita'.
La totale rimozione nell'inconscio dell'inconscio di questa equivalenza fa sì che si generi la paura della morte, paura accompagnata dalla deiezione ed angoscia esistenziali. Una paura che altrimenti non avrebbe ragione di sussistere, stante la reciprocità di senso che connaturano vita e morte.
Tanto che appare più che legittimo il dubbio che la paura della morte nasconda in sé la vera paura, che è 'la paura della vita'. La vita fa paura perché è nel tempo, quel tempo finito che impedisce di cambiare il passato, che non ha presente perché nulla persiste, che ignora il futuro consegnandolo alla totale imprevedibilità. E se i viventi sono, come sono, gli abitatori del tempo, essi 'vivono la morte', secondo dopo secondo, minuto dopo minuto, ora dopo ora, etc. nella scansione della misura matematica che si sono dati e che, nell'epoca attuale, è raffigurata dalla immagine dell'orologio.
Entro la dimensione creduta diveniente del mondo, il passare del tempo è il suo 'consumarsi', il suo 'esaurirsi' sino al termine designato della morte. La quale, nella verità dell'essere, costituisce la perfezione della vita, il 'perfectum' indiveniente di contro alla successione diveniente della vita vissuta. Non solo la morte non è annichilimento della vita, bensì, al contrario, è la negazione del suo annichilimento. Nella verità dell'essere, abbiamo un rovesciamento radicale del significato della morte e di converso della vita. Nella verità il vivente vivrebbe la vita come eterna attualità il che presupporrebbe l'inesistenza della morte. Il fenomeno della morte non verrebbe più assunto quale scacco drammatico e doloroso ma si darebbe come inglobamento nel senso autentico del vivere. Quel senso che rende possibile la felicità, venendo meno l'angoscia che accompagna l'interpretazione nichilistica della vita come esistenza (da ex-sistere ovvero lo 'stare fuori dall'essere').
Lo stare nell'essere, viceversa, è l'attualizzazione eterna degli infiniti enti che sorgono e tramontano, si presentano e si assentano, sono il 'qui ed ora' vissuto ed il ricordo, 'qui ed ora', del vissuto. Nella dimensione che vede il trionfo della gioia, il vivente non è l'ente che consuma il tempo e ne è consumato, perché non vi è alcun tempo da consumare. Se il vivente è l'uomo, egli è già nell'oltrepassamento del proprio esserci intramondano, egli è già oltre la condizione attuale di abitatore del tempo.
Ma sino a che resiste la follia nichilista, la vita è dolore e la morte fa paura.
Il pensiero subendo il predominio della volontà, si perde nella chiacchiera o si culla nelle illusioni.
Tuttavia per quanto potente, la volontà non è in grado di eliminare il pensiero.
Può cercare di nasconderlo, di deviarlo, perturbarlo, sconvolgerlo: mai annichilirlo. Perché il pensiero è indissolubilmente legato all'ego, alla componente cosciente dell'essere umano. Ma l'ego del pensiero (l'ego che pensa e si pensa) è profondamente diverso dall'ego che si forma sulla volontà.
Mentre l'ego 'volitivo' è l'errore che conduce alla follia, l'ego pensante nello stesso momento in cui pensa o si pensa è già nel suo proprio oltrepassamento. Non è più riconducibile all'ego 'volitivo'. L'oltrepassamento dell'ego, sciogliendo le catene che lo legano alla volontà, è apertura all'ego autentico, all'eterno riflettersi dell'Essere. In uno nell'Essere, l'ego, la vita, il mondo assumono significati inauditi, non rappresentando più alcune tra le molteplici forme in cui si manifesta l'errore della fede nel divenire.
Con il tramonto dell'ego, della vita, del mondo, in quanto costituiti dalla volontà, non avrebbero più ragione d'essere tutta quella serie di problemi che è connessa alla alienazione di ciò che è altro da sé, a partire, come si è sin qui evidenziato, dall'ego.
Quando non si ha timore di pensare (ovvero di mettere tutto in discussione, radicalmente, e di aprirsi così all'inaudito), non c'è bisogno di 'accettare' la vita e di credere nella esistenza della morte. Non c'è bisogno, perché non esistono più i presupposti (la fede nel divenire) che determinano il loro significato corrente.
Alberto Re