venerdì 29 aprile 2016








In pochi altri casi, in filosofia, in letteratura e poesia, nelle diverse forme d’arte, si misura così profondamente come in queste parole di Leopardi, il dramma esistenziale dell’uomo, combattuto tra dolore, noia ed illusioni. Insieme alle voci di Friedrich Nietzsche e di Giovanni Gentile, quella di Giacomo Leopardi è tra le più potenti della filosofia contemporanea.



CANTO NOTTURNO Dl UN PASTORE ERRANTE DELL' ASIA

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
E' la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al sole,
Perchè reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perchè da noi si dura?
Intatta luna, tale
E' lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perchè delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito Seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perchè d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
E' funesto a chi nasce il dì natale.


giovedì 28 aprile 2016




Da ‘COSI' PARLO' ZARATHUSTRA’

Di Friedrich Nietzsche

L’oltreuomo




Giunto nella città vicina, sita presso le foreste, Zarathustra vi trovò radunata sul mercato una gran massa di popolo: era stata promessa infatti l'esibizione di un funambolo. E Zarathustra parlò così alla folla:Io vi insegno il superuomo. L'uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo? Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete essere il riflusso in questa grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l'uomo? Che cos'è per l'uomo la scimmia? Un ghigno o una vergogna dolorosa. E questo appunto ha da essere l'uomo per il superuomo: un ghigno o una dolorosa vergogna. Avete percorso il cammino dal verme all'uomo, e molto in voi ha ancora del verme. In passato foste scimmie, e ancor oggi l'uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia. E il più saggio tra voi non è altro che un'ibrida disarmonia di pianta e spettro. Voglio forse che diventiate uno spettro o una pianta? Ecco, io vi insegno il superuomo! Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio. Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenati essi stessi, hanno stancato la terra: possano scomparire! Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e così sono morti anche tutti questi sacrileghi. Commettere il sacrilegio contro la terra, questa è oggi la cosa più orribile, e apprezzare le viscere dell'imperscrutabile più del senso della terra! In passato l'anima guardava al corpo con disprezzo: e questo disprezzo era allora la cosa più alta: essa voleva il corpo macilento, orrido, affamato. Pensava in tal modo, di poter sfuggire al corpo e alla terra. Ma questa anima era anch'essa macilenta, orrida e affamata: e crudeltà era la voluttà di questa anima! Ma anche voi, fratelli, ditemi: che cosa manifesta il vostro corpo dell'anima vostra? Non è forse la vostra anima indigenza e feccia e miserabile benessere? Davvero, un fiume immondo è l'uomo. Bisogna essere un mare per accogliere un fiume immondo, senza diventare impuri. Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è il mare, nel quale si può inabissare il vostro grande disprezzo. Qual è la massima esperienza che possiate vivere? L'ora del grande disprezzo. L' ora in cui vi prenda lo schifo per la vostra felicità e così pure per la vostra ragione e la vostra virtù . L' ora in cui diciate : " Che importa la mia felicità ? Essa é indigenza e feccia e un miserabile benessere . Ma la mia felicità dovrebbe giustificare persino l' esistenza ! " L' ora in cui diciate : " Che importa la mia ragione ! Forse che essa anela al sapere come il leone al suo cibo ? Essa é indigenza e feccia e un miserabile benessere " . L' ora in cui diciate : " Che importa la mia virtù ! Finora non mi ha mai reso furioso . Come sono stanco del mio bene e del mio male ! Tutto ciò é indigenza e feccia e benessere miserabile ! " . L' ora in cui diciate : " Che importa la mia giustizia ! Non mi vedo trasformato in brace ardente Ma il giusto é brace ardente ! " . L' ora in cui diciate : " Che importa la mia compassione ! Non é forse la compassione la croce cui viene inchiodato chi ama gli uomini ? Ma la mia compassione non é crocefissione " . Avete già parlato così ? Avete mai gridato così ? Ah , vi avessi già udito gridare così ! Non il vostro peccato - la vostra accontentabilità grida al cielo, la vostra parsimonia nel vostro peccato grida al cielo! Ma dov'è il fulmine che vi lambisca con la sua lingua! Dov'è la demenza che dovrebbe esservi inoculata? Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è quel fulmine e quella demenza! - Zarathustra aveva detto queste parole, quando uno della folla gridò: "Abbiamo sentito parlare anche troppo di questo funambolo; è ora che ce lo facciate vedere!". E la folla rise di Zarathustra. Ma il funambolo, credendo che ciò fosse detto per lui, si mise all'opera. Zarathustra invece guardò meravigliato la folla. Poi parlò così: L'uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, - un cavo al di sopra di un abisso. Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi. La grandezza dell'uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell'uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto. Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono una transizione. Io amo gli uomini del grande disprezzo, perché essi sono anche gli uomini della grande venerazione e frecce che anelano all'altra riva. Io amo coloro che non aspettano di trovare una ragione dietro le stelle per tramontare e offrirsi in sacrificio: bensì si sacrificano alla terra, perché un giorno la terra sia del superuomo.Io amo colui che vive per la conoscenza e vuole conoscere, affinché un giorno viva il superuomo. E così egli vuole il proprio tramonto. Io amo colui che lavora e inventa, per costruire la casa al superuomo, e gli prepara la terra, l'animale e la pianta: giacché così egli vuole il proprio tramonto. Io amo colui che ama la sua virtù: giacché virtù è volontà di tramontare e una freccia anelante. Io amo colui che non serba per sè una goccia di spirito , bensì vuol essere in tutto e per tutto lo spirito della sua virtù : in questo modo egli passa , come spirito , al di là del ponte . Io amo colui che della sua virtù fa un' inclinazione e un destino funesto : così egli vuole vivere , e insieme non più vivere , per amore della sua virtù . Io amo colui che non vuole avere troppe virtù . Una virtù é più virtù di due , perchè essa é ancor più il cappio cui si annoda un destino funesto . Io amo colui l' anima del quale si dissipa e non vuol essere ringraziato , nè dà qualcosa in cambio : giacchè egli dona sempre e non vuol conservare se stesso . Io amo colui che si vergogna quando il lancio dei dadi riesce in suo favore e si domanda : son forse un baro ? egli infatti vuole perire . Io amo colui che getta avanti alle proprie azioni parole auree e mantiene più di quanto prometta : egli infatti vuole il proprio tramonto . Io amo colui che giustifica gli uomini dell' avvenire e redime quelli del passato : a causa degli uomini del presente egli infatti vuole perire . Io amo colui che castiga il suo dio perchè ama il suo dio : giacchè dovrà perire per l' ira del suo dio . Io amo colui l'anima del quale trabocca da fargli dimenticare se stesso, e tutte le cose sono dentro di lui: tutte le cose divengono così il suo tramonto. Io amo colui che è di spirito libero e di libero cuore: il suo cervello, in tal modo, non è altro che le viscere del cuore, ma il suo cuore lo spinge a tramontare. Io amo tutti coloro che sono come gocce grevi, cadenti una a una dall'oscura nube incombente sugli uomini: essi preannunciano il fulmine e come messaggeri periscono. Ecco, io sono un messaggero del fulmine e una goccia greve cadente dalla nube: ma il fulmine

martedì 26 aprile 2016

ALCUNE OPERE FOTOGRAFICHE (da 'La Città di Marco Polo')
DI VANNI DE CONTI









L’ESSERE (2a parte)
Dunque la via del misticismo non solo non porta da nessuna parte, ma è carica di conseguenze nefaste al fine di un corretto uso della ragione. Per il quale uso resta interamente valido quanto affermato da Kant.
Ponendo chiari limiti alla ragione pura ed alla ragione pratica, si evitano certamente fughe in avanti del pensiero in una regione metafisica dove non esisterebbero confini per ogni tipo di fantasia o credenza.
Questi stessi limiti determinerebbero però, all’opposto, l’impossibilità di dare ragione ed espressione alla illimitatezza della realtà dell’essere. Una realtà che continua così a rimanere nascosta, questa volta a causa della presunta inconoscibilità della cosa in sé.
L’evidenza dell’apparire delle cose, degli enti, sarebbe in qualche modo negata. Se non proprio semplici nomi, come sosteneva Parmenide, ciò che appare verrebbe posto in una relazione problematica con l’essere concreto, con la cosa in sé.
Se è vero, come si diceva poc’anzi, che ogni possibile conoscenza non può prescindere dalla percezione sensoriale del qualcosa che è, è però altrettanto vero che i sensi sono facilmente inclini all’errore; sono, per loro intrinseca natura, fallaci.
E dunque, se non si può fare cieco affidamento su di una assoluta autonomia della ragione, neppure si deve presumere una infallibilità dei sensi secondo il modo di un empirismo ingenuo. Le conclusioni raggiunte dall’empirismo puro fanno il paio con quelle raggiunte da una metafisica misticheggiante. Dove l’essere è compreso come uno sfondo irreale su di un palcoscenico reale (la vita) che vede incessantemente ora l’apparire, ora lo sparire, della infinita molteplicità di cose ed eventi che costituiscono il mondo. Questo mondo che a sua volta può essere considerato empiricamente come la sola realtà vera o può essere considerato misticamente  come qualcosa di illusorio, avvolto com’è da un velo (il velo di Maia) che lo separerebbe dalla sostanza concreta dell’essere. Lo sfondo che costituisce la possibilità di ogni apparire continuerebbe in entrambi i casi a permanere in un alone impalpabile ed etereo.
Siamo in generale in presenza di una fede in una dimensione del reale eternamente diveniente. Una fede in cui non è avvertita la contraddizione di un eterno che rinuncerebbe alla sua natura di sostanza immutabile per mutare nelle infinite forme del divenire e di un divenire che condurrebbe ad una fissità eterna del mutamento.
Questa contraddizione che Nietzsche cercò vanamente di risolvere con la teoria dell’eterno ritorno ricorre costantemente alla base della cultura, di ogni tipo di cultura, dalla sua origine sino ai giorni nostri. Il linguaggio, che ne è l’espressione, ne rimane profondamente contaminato cosicché le definizioni dei concetti fondamentali per la conoscenza appaiono lontani dal cogliere il vero.
Termini come uomo, vita, coscienza, anima, mondo, storia, pace, guerra, bene, male etc…etc… assumono significati che non corrispondono alla verità dell’essere.
Forse anche per questo Parmenide considerava le cose del mondo come semplici nomi senza nessuna realtà. Fu per salvare il mondo dall’annientamento a cui sarebbe andato incontro tenendo per buona la tesi di Parmenide  che Platone fu costretto in seguito a concepire gli enti come divenienti, a considerarli in rapporto con l’essere fin tanto che essi apparivano ed un nulla quando essi non apparivano più.
Non un nulla assoluto (nihil absolutum) certo, ma un nulla comunque sufficiente a negare il radicamento eterno di ogni cosa all’essere. Così, ad esempio, si giunge all’assurdo per cui il tempo che segue la morte dell’individuo non appartiene più al tempo eterno entro il quale stava il limite temporale del vissuto dell’individuo. L’essere che ha determinato l’esistenza dell’individuo ad un certo punto lo abbandonerebbe in una dimensione senza tempo. Ciò in aperto contrasto con la sua propria natura che rende possibile il limite temporale di ogni ente e l’esistente stesso unicamente se determinati all’interno del non-limite (apeiron) caratterizzante l’eterno.

 
L'IMPOSSIBILITA' DEL DIVENIRE

La filosofia sin qui non ha visto come il pensare l’annientamento di ciò che non appare pregiudichi la possibilità stessa dell’essere dell’essere. Nel cui seno non può verificarsi l’annientamento di nessuna cosa, neppure della più piccola ed insignificante, e  di nessuno spazio temporale, neppure della infinitesimale parte di un attimo, se non a scapito dell’annientamento dell’essere stesso.
Per permettere ciò che erroneamente è visto come il divenire (ovvero l’oscillazione di ogni cosa dal nulla all’essere e dall’essere al nulla) occorre che il tutto conservi la propria integrità, che l’uno rimanga indivisibile. Per la fede nel divenire la parte è invece separata dal tutto e lo spazio temporale è separato dal tempo eterno.
Cosicché avremmo l’assurdo di un tutto mancante delle sue parti e di un tempo eterno impossibilitato a manifestarsi nei necessari limiti temporali della mondanità.
Data per evidente ed indiscutibile la premessa di un mondo diveniente, una premessa che andrebbe invece discussa perché il divenire del mondo è tutt’altro che evidente, è perfettamente comprensibile come le conclusioni che dovrebbero condurre ad una definizione dell’essere portino a strade senza uscita.
Per una ratio calcolante così come per la percezione sensoriale costituisce certamente un problema condurre la molteplicità delle cose e delle forme ad una unicità sostanziale. Per la metafisica basata sulla razionalità calcolante e per l’empirismo votato fiduciosamente alla capacità conoscitiva dei sensi, la diversità delle cose e degli enti che appaiono nel mondo sono difficilmente riconducibili alla identità. Il tentativo più alto di giungere alla identità dei diversi è dato dalla dialettica hegeliana , la quale tuttavia non si compie mai in via definitiva, ripetendosi all’infinito il movimento che vuole l’ assunzione dell’altro da sé nello stesso sé per superarlo in un superiore e nuovo sé. Proprio perché anche la dialettica di Hegel è partecipe della dimensione diveniente, non si dà una circolarità compiuta, nella quale si riconosca una volta per sempre l’unità del molteplice.
Secondo una armonia ed una gioia del tutto che sono iscritte nella verità dell’essere.
Ma che la cultura dominante, sin dai suoi esordi, non può scorgere in quanto deviata irrimediabilmente da un retto percorso logico in cui prevalga una razionalità che non sia quella scientifica. Una razionalità cioè che non si basi su di un processo ipotetico e falsificabile, ma che proceda avendo in sé come fine la ricerca  della verità, una ed incontrovertibile.
La discussione che siamo andati sin qui sviluppando non ha portato elementi del tutto nuovi rispetto a quelli già noti ai precursori della filosofia: ha tuttavia fatto proprie quelle analisi che conducono al punto fermo di una inconciliabilità tra l’essere ed il divenire. Che costituisce piuttosto una scelta di campo precisa che segna  un distacco rispetto alla maggior parte delle teorie formatesi lungo tutto il corso della storia della filosofia.
La nascita della filosofia coincide con l'evocazione del nulla quale concreta opposizione all'essere.
Il nulla non è più soltanto il positivo significare di sé ma è quel 'solido nulla' di cui parla Leopardi (il primo pensatore capace di scandagliare l'abisso del nichilismo sino a vederne le radici) .
Ma come è stato possibile considerare ciò che non appare come il nulla? La pre-esistenza di ciò che appare limitatamente nel tempo come il provenire dal nulla e la sua successiva esistenza come il ritornare nel nulla? L'esperienza non può testimoniare alcunché rispetto al passato di ciò che sopraggiunge e allo stesso modo del futuro che lo attende quando non è più presente allo sguardo di chi si trattiene nell'apparire.
Tanto basterebbe per impedire di affermare che il passato ed il futuro di ciò che appare siano il nulla, magari nella forma edulcorata del non essere. La distinzione tra nulla assoluto (nihil absolutum) e non essere la dice lunga sui dubbi che tormentavano  grandi pensatori come Platone ed Aristotele e tutti coloro che li hanno preceduti e seguiti.
Una differenza che avrebbe dovuto evitare l'errore del nichilismo: per quanto sottile e ben argomentata, tale differenza ha tuttavia la sembianza di un escamotage che non cambia la realtà delle cose.
La storia della filosofia è la storia del nichilismo e la distanza tra chi vede Dio e chi vede il Nulla, tra i naturalisti e gli spiritualisti, tra i nominalisti ed i realisti, tra i positivisti e gli idealisti è più legata alla forma che alla sostanza. Tutte teorie la cui distanza o opposizione è solo apparente, venendo meno rispetto alla stretta comunanza che le legano alla fede nel divenire, ovvero all'essere, tutte, di segno nichilista.
L'essere è la Totalità di ogni cosa, dell'apparire e del non apparire, ed in sé comprende come negato il nulla (la cui valenza sta unicamente nel suo positivo significare, ovvero nella necessità del suo nome perché il linguaggio possa dire dell'unica realtà dell'essere). In tal senso si può affermare, con Heidegger, che 'il linguaggio è la casa dell'essere'. Ma se per Heidegger l'essere è nella identità con l'apparire, fuori dal nichilismo, l'apparire è anche l'apparire della necessità del non apparire. Si vuol dire che il qualcosa di determinato in cui consiste sempre l'apparire esige una realtà più ampia della propria determinazione, una origine che la trascende e proprio perché trascendente, non appare.
Ma quando si pensa che il non apparire sia il nulla o il non-essere è quando non si riesce a comprendere come il non- apparire e l'apparire siano strettamente uniti nella totalità dell'Essere, ed il ciò che è (l'esistente) sia in stretta relazione con ciò che lo trascende, ovvero con tutto ciò che pur non apparendo non si può dire che non esista. Il fatto di non vedere una cosa non consente di affermare che questa cosa non esista.
Il nichilismo non riesce, come appena accennato, a comprendere come l'esistenza della singola cosa, dell'ente particolare sia possibile in quanto il proprio limite temporale e spaziale è il risultato del trascendentale. Il trascendentale (nome proprio dell'Essere) è l'illimitato, l'infinito. L'Eterno. L'esistenza di una cosa (il suo sopraggiungere nel cerchio dell'apparire) non inizia o termina con la sua presenza, in quanto essa è possibile per lo stare di ciò che la precede e la segue. E questo stare impedisce di concepire il prima ed il dopo di una presenza come assenza (ed in quanto tale come non essere o nulla).
Ma non potendo vedere il tutto (contraddizione C individuata da Emanuele Severino), non possiamo vedere la costituzione trascendentale che determina il limite della presenza temporale dell'ente.
Ci rimane così difficile comprendere come ogni cosa, dalla più piccola ed insignificante sino alla più grande e significativa, sia eterna. In quanto mortali, siamo abitatori del tempo e quindi costretti a misurare l'esistenza come successione di un prima, di un ora, di un dopo. Successione che non appartiene alla eternità dell'Essere e di tutta l'infinità di enti che lo costituisce.






domenica 24 aprile 2016







STORIA DEL CINEMA A MILANO
Crimini e delitti sui Navigli
Giorgio Scerbanenco, il Simenon della metropoli in nero
 

 

È alto, magro, dall’aria mite e viene dall’est. Si chiama Giorgio Scerbanenco, ma il suo vero nome è Vladimir Scerbanenko, nato il 28 luglio 1911 a Kiev in Ucraina da madre romana e da padre professore di latino e greco ucciso durante la Rivoluzione d’ottobre dai bolscevici. Approdato prima a Roma e poi nella metropoli lombarda, il giovane è nato per fare lo scrittore pur essendo autodidatta. Dotato di una fertile fantasia e velocissimo nello scrivere (anche dieci cartelle all’ora senza una correzione), nel ’34 si vede pubblicare da Rizzoli la sua prima novella scoperto da Cesare Zavattini che ne intuisce il talento. Nella casa editrice fa presto carriera come giornalista diventando direttore dei periodici “Novella” e “Bella”. A lui si deve l’invenzione della “posta del cuore”, firmata con il nome di Adrian e di Valentino. Prolifico e versatile scrive racconti western, di fantascienza e di letteratura rosa. Nel ’36‐’37 cura la rubrica “Gangsters e Gmen” su “Il secolo illustrato” con lo pseudonimo di Denny Sher, storie poliziesche ambientate nelle città americane. Nel ’39 “Scerba” passa alla Mondadori periodici, collaborando alla Gazzetta del Popolo, al Corriere della sera, al Resto del Carlino e pubblicando a puntate numerosi romanzi d’appendice molto seguiti dai lettori. Nel ’43, con l’avvento della Repubblica Sociale di Salò, fugge in Svizzera dove continua la sua attività giornalistica presso alcune testate locali e rientra in Italia solo a guerra finita. Negli anni Cinquanta grazie alla sua esperienza giovanile di volontario notturno sulle ambulanze della Croce Rossa tra ubriachi, feriti, disadattati di ogni tipo si dedica al genere noir con la sua scrittura elegante e chiara in grado di cogliere le atmosfere metropolitane di una Milano immersa nel boom economico. Una realtà apparentemente florida, ma che nasconde invece profondi disagi sociali e una nuova spietata criminalità cresciuta nei vecchi quartieri di periferia. Inventa il personaggio di Duca Lamberti, ex medico radiato dall’albo per avere praticato una eutanasia a una vecchia signora malata gravemente che spesso, grazie al suo fine intuito investigativo, collabora con la polizia e con il commissario Luigi Càrrua futuro questore della città. Nasce la quadrilogia di “Venere privata”, “Traditori tutti”, “I ragazzi del massacro”, “I milanesi ammazzano il sabato” che ottiene un successo strepitoso in Italia e anche all’ estero.
In particolare “Traditori tutti” vince il prestigioso premio francese “Grand prix de littérature policìen”. Lo scrittore nel frattempo si è sposato con Nunzia Monanni e ha due figlie. Schivo, timido e riservato, non frequenta gli ambienti più in vista del giornalismo e dell’editoria, ma si limita a una vita semplice fatta di passeggiate per Milano e in particolare in via Manzoni. Dal 1965 trasferisce la residenza a Lignano Sabbiadoro, dove lavora con serenità ai suoi romanzi al caffè sulla spiaggia, battendo i tasti della sua mitica lettera 22 di marca tedesca. La figlia Cecilia donerà nel 2011 il materiale dell’archivio di suo padre alla biblioteca comunale locale. Il cinema non poteva ignorare le sue opere. Il 30 dicembre 1969 esce nelle sale “I ragazzi del massacro” di Fernando Di Leo liberamente dall’omonimo noir, con Pier Paolo Capponi nei panni del commissario Luca Lamberti (nome sbagliato che appare scritto sulla scrivania del funzionario) incaricato di indagare sullo stupro e sul delitto commesso da alcuni studenti di una scuola serale nei confronti di un’insegnante. L’anno successivo tocca al francese Yves Boisset sfruttare la popolarità d’oltralpe dello scrittore con “Il caso Venere privata”. Il bravo Bruno Cremer è Duca Lamberti alle prese con un ragazzo alcolizzato e depresso a causa del suicidio di una giovane, una Raffaella Carrà quasi irriconoscibile con indosso una parrucca nera e una minigonna arancione, coinvolta in un giro di pornografia. In una scena vediamo l’attore francese in automobile mentre spia un sospettato davanti al cinema Excelsior in Corso Vittorio Emanuele le cui locandine annunciano la programmazione di “Metti una sera a cena”. Dopo pochi giorni un'altra pellicola è nei cinema italiani. Si tratta di “La morte risale a ieri sera” tratta da “I milanesi ammazzano il sabato”, per la regia di Duccio Tessari e la fotografia di Lamberto Caimi con location milanesi classiche, dalla Questura di via
Fatebenefratelli alla Chiesa della Grazie e al Palazzo delle Stelline in Corso Magenta. Il commissario Lamberti (impersonato da Frank Wolff) affiancato dal suo vice, il brigadiere Mascaranti (Gabriele Tinti) cui rimprovera continuamente la lunghezza dei suoi capelli, deve rintracciare Donatella, una ragazza minorata rapita da una banda di balordi per avviarla sul viale del vizio. Il padre Raf Vallone, vedovo e disperato si metterà a indagare per suo conto. Nel ’72 è la volta “Milano calibro 9” dal racconto “Stazione Centrale”, un cult diretto ancora da Fernando Di Leo con un memorabile Gastone Moschin nel ruolo di Ugo Piazza, un duro della malavita milanese appena uscito da San Vittore e accusato di aver nascosto il malloppo consistente in 300.000 dollari. Pestato da un malavitoso siciliano con la faccia di Mario Adorf e da due suoi complici, Piazza scatena una lotta senza esclusione di colpi con vari morti ammazzati e scene di violenze crudelissime. Nel film, amatissimo da Quentin Tarantino (riprodurrà la scena del taglio di un orecchio nel suo “Le iene”), i due poliziotti incaricati delle indagini sono il commissario (Frank Wolff,) classico funzionario politicamente di destra e il suo vice Mercuri (Luigi Pistilli) di sinistra convinto che la vera delinquenza è da ricercarsi nell’alta borghesia impunita e pronta a portare i suoi soldi all’estero. Sempre nel ‘72, Di Leo firma “La mala ordina” dal racconto “Milano by Calibro 9” ancora con Mario Adorf nel ruolo di Luca Canali, un piccolo pappone cui hanno ucciso la moglie Sylva Koscina e la figlia che vuole vendicarsi dei colpevoli. Nel 1975 Luigi Cozzi, ispirandosi all’inizio del libro “Al mare con la ragazza”, gira “L’assassino è costretto ad uccidere ancora”, storia di un architetto impegnato nel progettare un uxoricidio servendosi di un killer da lui ricattato. Infine nel ’76 dal racconto “Bravi ragazzi bang bang”  esce  “Liberi  armati, pericolosi” di Romolo Guerrieri ambientato tra i giovani della Milano bene balordi e annoiati con  Tomas  Milian,  un commissario tutto d’un pezzo e l’esordiente  Diego
Abatantuono nel ruolo di Lucio, un giovanotto viziato e corrotto. Scerba negli ultimi anni di vita riceve molte
proposte per sceneggiature e soggetti cinematografici ai quali vorrebbe dedicarsi con passione pensando perfino di trasferirsi a Roma. Purtroppo il Simenon italiano, capo scuola degli scrittori noir milanesi Andrea G. Pinketts, Piero Colaprico, Gianni Biondillo, Adele Marini, Renato Oliveri, Sandrone Dazieri e molti altri, si ammala seriamente e dopo ottantadue romanzi e mille racconti muore a Milano d’infarto a soli cinquantasette anni il 27 ottobre ’69, due mesi prima della strage di Piazza Fontana. “L’Italia – come ricorda Marco Cicala ‐ stava imboccando un tunnel di cui lo scrittore aveva già annusato l’odore acre”.

sabato 23 aprile 2016


INCONTRI CON EMANUELE SEVERINO



Il nome di Emanuele Severino ricorrerà spesso su questo blog. Per la semplice ragione che il sottoscritto come moltissimi altri considera il pensiero di Severino come il più acuto, profondo, persuasivo e sistematico per comprendere il mondo in cui viviamo e per capirne le tendenze fondamentali. (alberto re)


Emanuele Severino, l’intervista: “Ecco perché la giovane Italia va in malora

Il filosofo racconta la crisi di un Paese acerbo che ha abbandonato i valori. E poi il fascismo, la Guerra fredda, il fu Pci, il capitalismo. E dei movimenti di piazza dice: “La vita sociale non è più adeguatamente garantita. La protesta è inevitabile e la situazione potrebbe peggiorare. Siamo in una fase pericolosa”

“L’umanità è molto vecchia, l’eredità, gli incroci hanno dato una forza insuperabile alle cattive abitudini, ai riflessi viziosi”, ammonisce Proust ne La prigioniera. Il taxi attraversa Brescia, gelida. L’indicazione stradale è precisa e, nel finale, perfino letteraria: “La via è lunga, io abito in quel tratto di strada dove amava passeggiare Foscolo”. Giunti nei pressi dei luoghi cari al poeta – che a Brescia, oltre ad amare appassionatamente una gentildonna, diede alle stampe i Sepolcri – si apre la porta di casa di Emanuele Severino. Entriamo non senza timori (ben riposti: il primo scivolone arriva al minuto tre, su un frammento de La gaia scienza di Nietzsche), in un soggiorno che ospita mille libri, un pianoforte a coda e un’imponente scultura del figlio Federico. È un Orfeo che ha perduto Euridice: “È così, testa a terra e piedi in aria – spiega il professore – e getta in faccia lo sconvolgimento del cuore”. Per capire qual sia lo sguardo di un filosofo sull’Italia (e se Proust – di cui il professore si occupa ne La filosofia futura – aveva ragione), partiamo da Leopardi, perché al piano di sotto c’è uno studio “riservato” dove il professore ha scritto i due libri dedicati al poeta di Recanati.
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Professore, quel “Piangi, che ben hai donde, Italia mia” è un grido di dolore sempre valido?
Sì, ma dobbiamo dire che le spiegazioni della crisi del nostro tempo rimangono molto in superficie anche quando vogliono andare in profondità. Il fenomeno di fondo, che non viene adeguatamente affrontato, è l’abbandono, nel mondo, dei valori della tradizione occidentale;  e questo mentre le forme della modernità dell’Occidente si sono affermate dovunque. Un abbandono che si porta via ogni forma di assoluto – e innanzitutto Dio. Dio è morto…
Come la canzone…
Il professor Severino scoppia a ridere: Veramente come Nietzsche! Poi lui aggiunge: “E noi l’abbiamo ucciso”. Muore, dicevo, ogni forma di assolutezza e di assolutismo, dunque anche quella forma di assoluto che è lo Stato moderno, che detiene – dice Weber – “il monopolio legittimo della violenza”. Questo  grande  turbine che si porta via tutte le forme della tradizione  è guidato dalla tecnica moderna – ed è irresistibile nella misura in cui ascolta la voce che proviene dal sottosuolo  del pensiero filosofico del nostro tempo.  Il turbine travolge anche le strutture statuali. Investe innanzitutto le forme più deboli di Stato.
Cosa pensa dei movimenti di piazza di queste settimane?
La trasformazione epocale di cui parlo non è indolore: il vecchio ordine non intende morire, ma è sempre più incapace di funzionare, soprattutto in Paesi come l’Italia. E il nuovo ordine non ha ancora preso le redini. È la fase più pericolosa (non solo per l’Italia).
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La disperazione sociale è evidente e molto preoccupante.
Per quel che prima ho detto, la vita sociale, anche in Italia, non è più adeguatamente garantita. La protesta è inevitabile e la situazione potrebbe peggiorare. La “politica” autentica del nostro tempo consiste nel capire la radicalità della trasformazione in atto sul Pianeta, cioè deve lasciare la guida alla razionalità scientifico-tecnologica, destinata a imporsi con la morte del vecchio mondo.
Tra le forme più deboli di Stato c’è l’Italia?
L’Italia è uno Stato acerbo. Ha 150 anni su per giù. Ma soprattutto ha alle proprie spalle una storia di frazionamento politico-economico-sociale, dove si sono imposte forze che hanno avuto nel mondo un peso ben maggiore di quello dell’Italia unita. Pensi, ad esempio, allo Stato pontificio. La sua storia attraversa l’intera storia europea: qualcosa di molto più consistente e visibile che non l’Italia. Non mi sembra un caso che Putin venendo in Italia vada prima dal Papa, nel centro mondiale della cattolicità, e solo dopo da tutti gli altri… Un secondo esempio? La Repubblica di Venezia. A suo tempo era l’equivalente dell’Inghilterra del XIX secolo. Potenze, dunque che non solo sono state al centro della vita mondiale, ma hanno organizzato la società in modo che lo Stato italiano sarebbe poi stato avvertito come un corpo estraneo da gran parte della popolazione della Penisola. Di qui il marcato individualismo degli Italiani. 
È questo il motivo per cui non abbiamo un senso dello Stato consolidato come in altri Paesi?
Sì, la “novità” del nostro Stato è tra i principali. Ma un secondo motivo – ce ne sono molti: parlo di quelli che qui mi vengono in mente – è che durante la Guerra fredda l’Italia ha avuto il più forte partito comunista dell’Occidente: il Pci è arrivato quasi al potere e in un modo democratico. Si verificarono due processi, diciamo concorrenti: il Pci andava progressivamente social-democratizzandosi e il consenso aumentava. Il problema era fare in modo che il primo processo fosse più veloce del secondo. Altrimenti sarebbero stati guai, nel senso di una reazione violenta del mondo occidentale che non avrebbe consentito all’Italia di entrare nella sfera di influenza sovietica. La marcia del comunismo verso la socialdemocrazia è uno degli esempi rilevanti di quello che chiamo “il tramonto degli immutabili” (cioè degli “dèi”). Il Pci era radicato nel marxismo, cioè, innanzitutto, in una filosofia. La cui crisi è iniziata quando la sinistra europea – si pensi ad esempio a Rudolf Hilferding – ha incominciato a spingere il comunismo da una gestione filosofica a una scientifica del movimento rivoluzionario, trasformandolo, appunto, in socialdemocrazia.
Però lei ha scritto un libro intitolato Capitalismo senza futuro.
Anche il capitalismo, infatti, ha alle spalle una visione filosofica prevalentemente assolutistica, del mondo (individuo e proprietà come valori assoluti). Gli si fa torto quando lo si tratta come un semplice mezzo per aumentare il profitto.  In Italia è più debole; ma la presenza dell’assolutismo cattolico e, fino a ieri, di quello comunista fa si che l’abbandono della tradizione abbia da noi un maggiore effetto traumatico rispetto ad altri Paesi. Ma poi – ritornando al tema della mancanza di senso dello Stato – essa porta con sé individualismo esasperato e corruzione. E, in proposito, sembra che la Guerra fredda sia stata già dimenticata.  È finita da pochissimo. In Occidente il comunismo è finito, ma è come se avessimo davanti un gigante morto. È in putrefazione, ma dà luogo a forme biologiche diverse e ingombranti. La contrapposizione tra il blocco sovietico e quello occidentale è stata una situazione di mors tua, vita mea. Ognuno ha adottato qualsiasi mezzo per contrastare l’avversario…
Per esempio?
Penso alla sostanziale “alleanza” tra Stati Uniti e mafia: meglio stare con i delinquenti non comunisti che con i comunisti. Ora, il denaro americano arrivava soprattutto per aiutare i partiti anticomunisti; ma la gestione politica di questo denaro non poteva essere un fatto pubblico; inevitabile, allora, la collusione tra Stato e illegalità. Che è sopravvissuta anche dopo la fine dell’Urss. D’altra parte la magistratura è stata ingenua nel voler assumere  un atteggiamento all’insegna del  fiat iustitia et pereat mundo.
Qual è stata l’ingenuità?
Pensare di poter spingere fino in fondo le indagini sulle responsabilità e illegalità prodottesi dalla inevitabile collusione tra Stato e criminalità .
Sta parlando di Tangentopoli?
Un esempio potrebbe essere questo. Ma vado anche più in là: mi riferisco al mondo capitalistico. La magistratura ha voluto  fare qualcosa che non era accaduto nemmeno con la fine del fascismo. Togliatti non ha incriminato i funzionari e la classe dirigente del fascismo. Ha scelto l’amnistia…
L’Italia è storicamente allergica alle epurazioni?
Intendo dire che il capitalismo ha vinto  la Guerra fredda; ed è ingenuo credere di poter trattare dal puro punto di vista giudiziario un fenomeno storico di questa portata.
I pm di Mani Pulite hanno sempre detto di essere stati travolti da una valanga di chiamate in correità. E nel nostro sistema l’azione penale è obbligatoria.
E questo produce un dramma! Non sto dicendo che si sarebbe potuto evitare. Il giudice è ovviamente obbligato a indagare e a dare sanzioni, ma è anche ovvio che il vincitore – il capitalismo – non accetta di essere punito per aver usato mezzi che gli hanno consentito di vincere il nemico mortale.
La lunga gestazione della decadenza di Berlusconi è la prova che non esiste una sanzione sociale per alcuni comportamenti. E questo determina che alla fine i giudici selezionano la classe politica, nel senso che se uno non è stato condannato può fare tutto quello che vuole. Se il presidente degli Stati Uniti dice una bugia si deve dimettere.
Ma certo! Aggiungo che 25 anni fa scrivevo, nel libro da lei richiamato, che era meglio che la Fininvest scendesse in campo politicamente, piuttosto che trattenere del tutto  nell’ombra il proprio operare.
Lo sottoscrive?
Sì, meglio questo di una destra che agisce con lo stile della P2. Meglio, per l’Italia, che esprima pubblicamente i propri progetti, almeno in parte.
Anche se si fanno le leggi ad personam? Non è pericoloso dire certe cose in un Paese dove i magistrati vengono tacciati di essere un cancro?
Condivido il senso della domanda. Ma proprio perché ho scritto libri come Il declino del capitalismo  e Capitalismo senza futuro, quanto  le sto dicendo non può passare per un’apologia del capitalismo e delle sue degenerazioni. (Non è nemmeno un’apologia del marxismo). È la constatazione di  alcuni dei fattori per i quali la destinazione della tecnica al dominio del mondo produce in Italia una crisi più grave che altrove. E non dimentichiamo le tragedie e gli scompensi determinati dalla dittatura  fascista.
Che ricordi ha dell’Italia fascista?
Rispetto ai nostri temi sono  irrilevanti. Il più terribile, per me, è un ricordo personale, legato alla morte di mio fratello Giuseppe nel 1942, ventunenne. Un giovane straordinario. Aveva otto anni più di me. Studente alla Normale di Pisa, era stato obbligato, per legge, a diventare volontario del Regio Esercito Italiano, nel Corpo degli Alpini, sul fronte francese: la sua morte mi ha segnato. Non posso dire di aver respirato, da ragazzino, l’esecrazione per quanto, in seguito, ho saputo e capito essere il fascismo. Ho studiato dai Gesuiti: ricordo il saluto fascista all’uscita della scuola. Lì ho incontrato padre Auer, che aveva conosciuto Hitler da vicino. Andavo a lezione da lui perché volevo imparare il tedesco. Era stato intimo del giovane Hitler e mi raccontava di un uomo assolutamente disturbato, che se le cose non andavano come lui voleva, aveva incredibili accessi d’ira, si rotolava per terra. Un matto. Nelle mie conversazioni con padre Auer, ripensandoci ora, davo per scontato che i nazisti fossero dei matti.
Si evoca, con una certa frequenza, un’incapacità dell’Italia di fare i conti con il passato. Cosa ne pensa?
Le rispondo parlando di un filosofo, Giovanni Gentile, che mio fratello ascoltava a Pisa, perché è stato la figura più profonda del fascismo. Amo dire che non era Gentile a essere fascista, ma il fascismo a tentar di essere gentiliano. Gentile è stato uno dei grandi gestori del “grande turbine” di cui parlavamo all’inizio: il suo pensiero è profondamente antiassolutista e antitotalitario, Mussolini non lo capiva. Da vecchio liberale aveva visto nel fascismo l’occasione per realizzare la sua riforma della scuola. Un’ottima riforma, per quell’Italia. Oggi – anche qui, per la debolezza delle nostre strutture statali – si fanno tra l’altro concorsi universitari dove si applicano retroattivamente disposizioni pateticamente dipendenti dalla cultura inglese e americana. Anche l’idea di studiare la filosofia da un punto di vista storico è sua: un’idea purtroppo rovinata dai manuali che non hanno capito che cosa sia un storia filosofica della filosofia. Comunque,  gli scritti politici di Gentile considerano il fascismo come un “esperimento”, non certo come  un assetto assoluto e immodificabile.
Evasione fiscale e corruzione: sono una nostra “tara genetica”?
Una tara storica, come prima le dicevo. L’evasione fiscale è un furto ai danni di tutti. Se c’è da costruire una strada io devo metterci anche la parte degli evasori. Certo, molti artigiani e piccoli imprenditori, se non evadessero, fallirebbero. Tutti sanno queste cose. Però conosco anche tanti cattolici ai quali molti uomini di Chiesa facevano capire che se non avessero ritenuto “giusto” pagare le tasse dello Stato, avrebbero fatto bene a non pagarle. Questo Papa, da buon pastore, sta cercando di cambiare le cose. Ma  non vorrei che si perdesse di vista che la “corruzione” di fondo è l’“evasione” del mondo dal passato dell’Occidente. Vorrei dire che il processo in cui le strutture del passato stanno andando in malora è come la febbre: se non la si avesse non si potrebbe guarire. Stiamo andando verso un mondo gestito dalla razionalità tecnologica; ed è probabile che l’Italia, proprio perché ha avuto gli inconvenienti di cui abbiamo parlato, anticipi i tempi rispetto agli altri popoli meno febbricitanti. (Mi lasci dire anche, molto sottovoce, che nonostante la sua destinazione al dominio del mondo, la civiltà della tecnica è ciò che  chiamo “la forma più rigorosa della Follia estrema”. Ancora più sottovoce: la Follia estrema è credere nel carattere effimero, temporale, contingente, casuale, dell’uomo e della realtà: è la convinzione che ogni cosa venga dal nulla e vi ritorni. Però la difesa suprema dall’angoscia suscitata da questa convinzione – la difesa che nella tradizione è costituita, in ultimo, da Dio – è diventata la tecnica. Ovunque, la tecnica sta diventando la forma più radicale di salvezza, che oggi ha soppiantato qualsiasi altra forma di rimedio contro la morte. Mi affretto a lasciare questo tema, tanto più importante quanto più a sottovoce ne parliamo).
Anche in politica ci si affida alla tecnica come extrema ratio. Si è trattato, nel caso del governo Monti, del disvelamento di una bugia?
Rispondo ad alta voce. Una quindicina d’anni fa avevo criticato sia Monti sia Abete quando promuovevano l’unione di “solidarietà” ed “efficienza” (capitalistica). Abete, allora presidente di Confindustria, declinava tale unione, mi sembra, sul piano di una solidarietà più laica che cattolica; Monti la intendeva come solidarietà cattolica. Ma l’“efficienza” capitalistica è incompatibile con la “solidarietà” in senso cristiano. Quando Monti divenne premier, scrissi un articolo sul Corriere della Sera in cui dicevo che l’affacciarsi del suo governo “tecnico” aveva ben poco a che vedere con la destinazione della tecnica al dominio, quale viene intesa nei miei scritti. Proprio perché Monti dichiarava di voler coniugare l’efficienza capitalistica con la solidarietà in senso cattolico, quel governo “tecnico” – era  prettamente politico, un po’ mascherato. Ancora, l’economia comanda la politica e quindi un economista può essere più politicizzato (cioè “ideologizzato”) di un politico. Data la tendenza di fondo del corso storico ritengo tuttavia che ci si debbano aspettare governi che, sempre più, guidino le società sulla base dell’efficienza tecno-scientifica piuttosto che di quella capitalistica, e che a questa forma di efficienza resti sempre più subordinata l’istanza solidaristica. 
Le ideologie sono morte ma forse sono scomparse anche le idee. Destra e sinistra esistono ancora?
In ogni gruppo sociale ci sono quelli soddisfatti del proprio tenore di vita e tendono alla conservazione – la “destra” – e quelli che invece soddisfatti non sono e tendono al cambiamento – la “sinistra”.
Qual è la visione del mondo dello schieramento “progressista”?
Guardi: l’onorevole Gianni Cuperlo mi ha mandato un’email con il suo programma, chiedendomi cosa ne pensassi. Gli ho risposto che era un programma interessante, anche per il suo intento di collegarsi alla sinistra europea. Poi ho aggiunto che il suo progetto era il modo migliore per salvaguardare il capitalismo. Non mi ha più risposto. Ma vorrei dirgli che in quella mia aggiunta non c’era ombra di ironia. 
Perché il modo migliore per salvaguardare il capitalismo?
Ormai la sinistra, non solo italiana, non è più nemmeno socialdemocrazia, che mirava all’abolizione delle classi e del capitalismo per via democratica. Ormai anche il Pd è lontanissimo da queste aspirazioni, immerso com’è nella fede, peraltro diffusissima, della validità dell’organizzazione capitalista della società.
Curiosità mondana: guarda la televisione?
Quando c’è un buon film e, quasi sempre, il telegiornale.
E i talk show?
All’inizio i litigi dei politici erano abbastanza divertenti; adesso annoiano. Ma se vogliamo parlare di televisione  non possiamo lasciar da parte Internet. C’è contesa per la “conquista dello spazio”; nemmeno il “cyberspazio”  ha un unico padrone e i grandi gruppi economici se lo contendono. Chi vuole imporsi sul mercato, deve utilizzare televisione e Internet e tutti i mezzi telematici.  Lo strumento (il mezzo) però è destinato a prevalere sugli scopi economico-ideologici. Anche perché ciò che  più colpisce lo spettatore non  è tanto il messaggio quanto  piuttosto la capacità di Internet e televisione di comunicare qualsiasi messaggio. (Un esempio, questo – e torno a parlare sottovoce – del processo, inevitabile, nel quale la tecnica è destinata al dominio, cioè a servirsi, essa, delle grandi forze che ancora s’illudono di poter continuare, loro, a servirsi di essa. Ma nemmeno la tecnica ha l’ultima parola).
da Il Fatto Quotidiano del 15 dicembre 2013


venerdì 22 aprile 2016



'E LUCEVAN LE STELLE' DI GIACOMO PUCCINI

UNA DELLE VETTE DELLA LIRICA. DOVE L'INAUDITA FORZA DELLA VITA (E DELL'AMORE) SI LEGA INDISSOLUBILMENTE ALLA INAUDITA FORZA DELLA MORTE E DELLA DISSOLUZIONE. EROS E THANATOS, PER L'APPUNTO.

giovedì 21 aprile 2016

L'ARTE E'





LA SCUOLA DI ATENE' di Raffaello Sanzio


IL CINEMA
a cura di
PIERFRANCO BIANCHETTI, Critico Cinematografico e Sociologo, unisce ad una straordinaria conoscenza del mondo del Cinema una capacità unica di vedere la storia del Cinema all’interno dello sviluppo complesso delle Società Umane.  Per questo le sue recensioni non sono mai banali, ma sempre ricche di spunti che favoriscono la riflessione sulla condizione dell’Uomo, sulle sue miserie e le sue grandezze.



Potete leggere Pierfranco Bianchetti anche su‘www.riquadro.com’ e‘www.moviesushi.it’

BREVE BIOGRAFIA
Pierfranco Bianchetti nato a Milano nel 1946, laureato in sociologia alla Università  di Trento, è giornalista e critico cinematografico. Ha diretto per oltre quindici anni l’ Ufficio Cinema del Comune di Milano e il cinema De Amicis, locale d’ essai molto amato dai cinefili, promovendo anche rassegne sul cinema italiano in alcune città  estere gemellate con la città  lombarda. Collaboratore di quotidiani e periodici, organizza cicli e rassegne cinematografiche presso biblioteche, circoli culturali e presso il Museo di Storia Contemporanea di Milano.
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Storia del cinema a Milano - 1°






Il primo apparecchio Lumiére, lo sviluppo delle sale, l’arrivo del sonoro e le prime recensioni sulla stampa: il cinematografo questo sconosciuto.
Milano vive, sul finire del secolo diciannovesimo proprio in coincidenza con la gran rivoluzione industriale, un momento straordinario. Le nuove conquiste della tecnica e le mutazioni sociali danno un nuovo assetto alla città e alla regione con la nascita di solidi centri commerciali e industriali (la Carlo Erba, la Falck, la Pirelli, la Banca Commerciale). Questo sviluppo inaspettato favorisce involontariamente il successo del nuovo mezzo di comunicazione e di divertimento che si chiama cinematografo. La Milano di fine Ottocento, con i Navigli scoperchiati, le carrozze, i venditori ambulanti di caldarroste dai grandi baffoni e i bei teatri e caffè concerto sempre affollati, si prepara ad accogliere il nuovo secolo portatore di grandi progressi scientifici e tecnologici con una novità assoluta.
Il 20 marzo 1896 al Circolo Fotografico di via Principe Umberto (oggi via Turati) i cittadini assistono a un grande evento, la prima proiezione cinematografica pubblica con l’apparecchio
Lumiére, frutto del lavoro di anni di August e Louis, due fratelli inventori di Lione. Presentato ufficialmente solo il 28 dicembre 1895 a Parigi presso le Salon Indien del Grand Cafè al numero 14 di Boulevard des Capucine, il cinematografo Lumiére vanta la rivoluzionaria caratteristica di trascinare la pellicola durante la proiezione a intervalli fissi grazie a uno speciale ingranaggio in grado di mantenere una continuità delle immagini trasportate sullo schermo (secondo un principio simile al movimento della macchina per cucire).
La serata a inviti con giornalisti, autorità locali e addetti ai lavori non passa inosservata. Scrive il Corriere della Sera del 31 marzo / 1 aprile 1896: Il Cinematografo Lumiére, la nuova fotografia del movimento, è stato inaugurato al Circolo fotografico dinanzi a molte persone. Chi ha visto il Kinetoscopio Edison può farsi un’idea di ciò che sono queste nuove proiezioni fotografiche, le quali saranno ripetute in questi giorni al teatro Milanese. Sono quadri animati, riproduzioni vive di scene svariate. È la fotografia che si sostituisce all’occhio umano…. Il successo è immediato. Tanto che le proiezioni aperte al pubblico pagante sono spostate dal 30 marzo al teatro Milanese in corso Vittorio Emanuele 15 e poi anche al teatro Gerolamo di piazza Beccaria, al teatro Filodrammatici in piazza P. Ferrari e al teatro Alhambra in via Palestro. Naturalmente il ben noto senso pratico e imprenditoriale dei milanesi-lombardi dà i suoi frutti. Italo Pacchioni, un pioniere del cinematografo, costruisce poco dopo un suo apparecchio per la ripresa e la proiezione dei film. Nelle fiere questo nuovo spettacolo popolare diventa presto un’attrazione con le visioni di brevi sequenze. Pacchioni a Porta Genova con l’ausilio del baraccone delle meraviglie trasforma il cinematografo in avvenimento fisso e a basso costo. In una bacheca del Museo della Fondazione Cineteca Italiana è esporta una ghiotta curiosità: la multa che fu elevata allo stesso Pacchioni da parte di un solerte vigile urbano poiché la sua attività commerciale non era ancora contemplata dai regolamenti comunali dell’epoca. Il vigile non conoscendo la parola cinematografo sbagliò nel verbale della multa il nome del nuovo infernale apparecchio di proiezione delle immagini in movimento, che comunque in breve tempo riscuoterà un successo inarrestabile.
Nel 1907 a Milano sono già in funzione circa cinquanta sale, mentre Luca Comerio, un altro gran pioniere della settima arte, autore di reportages in giro per il mondo, fonda nel 1915 il primo teatro di posa costruito su di un’area a Greco Turro. Quattro anni prima a Milano vengono realizzati i primi lungometraggi intitolati L’Inferno e L’Odissea. All’inizio degli anni Venti, l’esercizio cinematografico fa passi da gigante con l’avvento di sale anche lussuose.
Nel ‘35 lo Smeraldo istituisce un servizio di
nursery, mentre all’Odeon e al Metro Astra belle e giovani mascherine accompagnano gli spettatori al loro posto. Nasce perfino un servizio per le prenotazioni telefoniche con il quale è possibile assicurarsi il posto prima di recarsi in sala. In città si continuano a produrre film, nonostante la forte concorrenza americana.
Nel 1927 nasce a Hollywood il cinema sonoro con il rivoluzionario “Il cantante di jazz” con Al Jolson, mentre di lì a poco anche la Garbo parlerà (“Garbo talks” era il celebre slogan). La sera del 26 aprile 1929, un venerdì, al cinema Corso con un unico spettacolo il film è proiettato anche a Milano, ma la stampa praticamente lo ignora. L’anno successivo con l’arrivo sugli schermi di La canzone dell’amore di Gennaro Righelli, la prima pellicola italiana parlata s’impone il sonoro come una novità assoluta che fa accorrere migliaia di spettatori incuriositi ed emozionati. Il cinematografo a quel punto comincia ad essere preso sul serio anche dagli intellettuali e la stampa non può più ignorarlo. Il Corriere della Sera, nonostante il parere contrario di Pirandello che considera quest’arte poco credibile, nel 1929 affida a Filippo Sacchi, un inviato del giornale malvisto dal regime fascista, una nuova rubrica firmata con uno pseudonimo. La settima arte come in tutto il resto del mondo è una realtà culturale – commerciale di tutto rispetto. Gli spettatori milanesi sempre di più rideranno, piangeranno e si emozioneranno nel buio delle sale cinematografiche.