lunedì 26 settembre 2011

POVERA ITALIA!


Pubblico volentieri il pensiero dell'amico Vanni De Conti, che condivido totalmente.
Lo schifo che gli Italiani per bene sono costretti a sopportare è tale che diventa anche improbo descriverlo. Diversamente, quante cose avrei da aggiungere (non basterebbe un volume come la Bibbia) e parole da inventare! Me ne astengo volutamente. Un 'proverbio' però mi sento di esprimere.


IL VOMITO
Supponiamo che ogni uomo possa vedere il contenuto dell'anima di ogni altro uomo. Nel caso di Berlusconi, per fortuna, è solo una supposizione. Altrimenti bisognerebbe avvertire i visitatori della sua anima di farlo in condizioni di digiuno. Perché nessuna persona decorosa riuscirebbe a trattenere il vomito. E vomitare non è certo una buona cosa!
Alberto Re





POVERA ITALIA! MA SE LO MERITA.


Berlusconi, zanza nazionale, poi internazionale, è stato fatto eleggere dalle multinazionali che si sono insinuate ed hanno influito nel mercato del voto per un unico scopo: far crollare l’Italia, visto che era già abbastanza in bilico, sull’orlo del precipizio, causa il suo debito pubblico e la viziosa sarabanda politica.
Oggi che siamo ormai all’epilogo, possiamo notare meglio che questo personaggio e la sua banda, oltre il suo governo in combutta con quest’ultima, altro non hanno fatto che immobilismo, inadempienze, personalismi: insomma tutto il peggio possibile che si possa fare in politica. Mai una legge per rinnovare, mai una per rilanciare il mercato del lavoro, per migliorare la mediocrità e la bassa linea degli stipendi che in Italia sono circa la metà di quelli dei paesi più evoluti: solo temporeggiare, falsificare, e Berlusconi fare il pagliaccio buffo e a volte tragico, l’erotomane. Ma ve ne siete accorti o no?
Il caro presidente, che non vuol fare marcia indietro e con la bugia è ancora lì, altrimenti con la verità sarebbe in galera da anni invece che continuare ad essere nababbo della stupida Italia papalincomunista. Ormai il caro premier ha salvato quasi tutte le sue magagne, compie 75 anni, quindi, secondo la legge italiana, niente più prigione. Evviva!


Vanni De Conti

sabato 19 marzo 2011

COMPRENSIONE DELL'ESSERE - 4


IL PREVALERE DELL'ERRORE

Che una cosa appaia o non appaia è volontà del Destino. La sola Volontà che ottiene ciò che vuole.
E ciò che vuole è innanzitutto lo stare dell'Essere: lo stare che per essere tale esclude con verità (ovvero con la propria incontrovertibile e non smentibile realtà) la possibilità del divenire delle cose, misurandone l'estrema follia quando si pensi che tale possibilità esista. Di più sia l'evidenza indiscussa. Da parte dell'esistente non esiste un suo provenire dal nulla, il trattenersi limitato e provvisorio nel tempo ed infine il suo ritornare nel nulla. Nascita e morte, così come significati dal linguaggio prodotto dal nichilismo, non esistono. La stessa esistenza, in quanto fuori (ex) dallo stare dell'essere (sistere) non è l'esistenza testimoniata dalla verità dell'essere. Anche ciò che esiste, per il nichilismo ossia per ogni forma di cultura sin qui prodotta dall'uomo, esiste come separato dall'essere. Nel sottosuolo del nichilismo, l'esistenza non è. Ma dal momento che il nichilismo non è in grado di riconoscere se stesso perché dovrebbe riconoscersi come pura ed estrema follia, deve pensare una tale proposizione come un non senso e quindi rifiutarla sotto l'aspetto della razionalità.
Tuttavia quanto cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. E così la follia si maschera dietro 'il velo di Maia' delle filosofie orientali secondo le quali l'esistenza è una illusione e se non è illusione non è neppure vita vera perché la vita vera viene dopo questa che viviamo sulla Terra (Cristianesimo).
Vi è una ragione ed una sola per spiegare la nascita delle religioni: la necessità di mascherare la Follia e l'Errore prodotti dal Nichilismo (il nichilismo, per quanto debole e sfumato, preesiste all'avvento della Filosofia: la grandezza della Filosofia è quella di aver portato alla luce ciò che, la fede nel divenire, era stato sin lì nascosto o travisato) sino a presentare l'una e l'altro nel loro opposto che è insieme la loro negazione: la Follia diventa Ragione Suprema e l'Errore diventa Verità.
Proprio là dove si predica la non-violenza, la pace, la fratellanza, etc vi è la radice più salda da cui trova sostegno la violenza .
Perché la violenza scaturisce là dove vi è l'errore e diventa incontenibile quando, con volontà perversa, l'errore è presentato come verità.
Si deve allora dire che le Religioni, in primis le Religioni monoteiste, sono la forma più esplicita e più grave della perversione umana.
Vero che anche la Metafisica ha avuto la sua parte nel pervertire la ragione umana, ma il suo percorso è sempre stato contraddistinto dalla prudenza dei filosofi nell'esporre il proprio pensiero. Ogni teoria filosofica non è mai stata data come verità assoluta, tanto chè in ognuna vi si trovano elementi di ponderazione, di interrogazione, di sospensione dal giudizio, etc...che inducono il lettore ad esercitare quello che Cartesio chiamerà 'dubbio metodico'.
A nessun filosofo, insomma, è mai venuto in mente di presentarsi come figlio di dio...
Siamo giocoforza costretti ad usare un linguaggio fortemente contaminato dalla fede nel 'divenire'. Per dar conto dell'essere occorre fare i conti con un linguaggio che non è tale da dare una ‘ragione’ comprensibile alla realtà ed identità dell’essere. Il linguaggio umano si è in vero formato unicamente in relazione a ciò che appare, al manifesto di cui si ha esperienza. La possibilità di una comunicazione in cui gli interlocutori comprendano allo stesso modo il significato della parola detta o scritta è data ove la parola si riferisca ad un qualcosa di semplice e di concretamente sensibile. Se dico ‘neve’ posso con certezza aspettarmi che il mio interlocutore comprenda il significato del termine ‘neve’ allo stesso modo con cui lo comprendo io. Ma se parlo, ad esempio, di ‘anima’ non posso aspettarmi la stessa comprensione che io ho del significato di ‘anima’ da parte del mio interlocutore. Quando ci si riferisce a dei termini astratti stabiliamo una comunicazione in cui riveste una grande rilevanza il carattere della interpretazione soggettiva, non venendo in questo caso in aiuto l’oggettività concreta della cosa capace di essere percepita attraverso i sensi.
Non a caso quella sul linguaggio è diventata una componente prevalente nello studio della filosofia contemporanea. E l’ermeneutica, da originario studio dei testi sacri, si è estesa sino a comprendere l’analisi dell’intera struttura semantica del linguaggio.
Come si può ben intuire, i problemi che si pongono sono estremamente complessi.
Va da sé che il linguaggio parlato dalla scienza non sia idoneo a parlare dell’essere. Il linguaggio che accompagna la ragione nella comprensione del suo percorso scientifico non è infatti lo stesso linguaggio in grado di accompagnare la ragione nella comprensione dell’essere.
In altri termini, il linguaggio che parla del divenire delle cose possiede una struttura semiotica e semantica altra dalla struttura linguistica atta a significare dell’essere.
E, come l’essere, avente il segno della fermezza ed immutabilità.
Questo linguaggio, che non possiamo definire come nuovo perché da sempre conservato nell’eternità dell’essere, comincia ad apparire. Un suo accenno è già nelle parole che testimoniano di un problema ignorato da ogni tipo di scienza e che abbiamo posto nei termini di ‘una comprensione dell’essere’.
Un compito che non può essere affidato che alla ragione. La quale, allo stato attuale del suo sviluppo e della sua conformazione, non è però in grado di assolvere. Poiché oggi la ragione parla con le parole della scienza e della tecnica, ogni tentativo di affrontare il tema finisce inevitabilmente per alimentare il contrasto con l’esperienza e con la struttura interna del linguaggio stesso. Che essendo direttamente in relazione con l’apparente mutare degli enti esperiti, spiega già il contrasto che attualmente una razionalità diversa da quella scientifica avrebbe nel suo rapporto con l’esperienza e la realtà.
Il contrasto tra ragione ed esperienza di cui si faceva cenno all’inizio della trattazione non ha bisogno dunque di ulteriore spiegazione, stante l’analogia che tale contrasto ha rispetto alla struttura del linguaggio: tema sul quale riteniamo di avere sufficiente riferito.
Il modo in cui oggi come ieri è accolta la realtà attraverso la percezione dei sensi (il modo dell’esperienza) e la sua traduzione linguistica (il modo prima della metafisica e poi dell’indagine scientifica) non è il modo attraverso il quale può essere accolta la realtà dell’essere.
Che per la metafisica certamente costituisce lo sfondo necessario ed immutabile che permette il divenire degli enti, ma secondo un processo in cui viene marcata la differenza ontologica tra l’essere e l’ente che appare. L’ultimo tratto del percorso della metafisica parla così con Heidegger di un ‘oblio’ dell’essere, che è una maniera elegante di mostrare l’alterità dell’essere rispetto all’ente. Con il risultato finale di una vita dell’uomo come vita alienata, deviata dal retto percorso che già la Dea della Giustizia aveva indicato a Parmenide come l’unico percorribile ogni caso per la filosofia, anche quando non vuol essere metafisica, l’essere continua a rimanere una realtà ineludibile e pertanto punto centrale della propria ricerca.
Contrariamente a quanto accade nella scienza, la quale, al fine di permettere il maggior dispiegamento della propria volontà di potenza, decide di ignorare il problema. Che vi sia o meno un essere immutabile ed eterno le rimane indifferente.
Di più, la possibilità che esista un essere siffatto sarebbe di ostacolo per la propria indagine conoscitiva, che esige invece una disponibilità e divisibilità infinita delle cose. Una disponibilità e divisibilità della cose che costituisce anzi la condizione stessa della possibilità dell’esistenza di una scienza.
Quale che sia il punto di partenza o l’angolo di visione, la conclusione è sostanzialmente la stessa: che l’essere si sottrae ad ogni definizione compiuta ed il significato che gli si vuole attribuire appare incerto ed instabile.
La causa della effettiva inconoscibilità dell’essere non è data, a parere nostro, dai limiti della ragione umana (secondo quanto rilevato da Kant), ma, come abbiamo sin qui cercato di dimostrare, da un particolare uso della ragione.
Quel particolare uso che scaturisce quando sulla ragione prevale la forza della volontà. Al di là e prima di ogni rapporto con l’esperienza e con la struttura linguistica che ne deriva, sta il rapporto con ciò che determina prevalentemente l’ego ed il mondo che sta davanti ad un ego così determinato: la volontà, che è sempre volontà di potenza.
Alberto Re

lunedì 14 marzo 2011

COMPRENSIONE DELL'ESSERE - 3


L'IMPOSSIBILITA' DEL DIVENIRE

La filosofia sin qui non ha visto come il pensare l’annientamento di ciò che non appare pregiudichi la possibilità stessa dell’essere dell’essere. Nel cui seno non può verificarsi l’annientamento di nessuna cosa, neppure della più piccola ed insignificante, e di nessuno spazio temporale, neppure della infinitesimale parte di un attimo, se non a scapito dell’annientamento dell’essere stesso.
Per permettere ciò che erroneamente è visto come il divenire (ovvero l’oscillazione di ogni cosa dal nulla all’essere e dall’essere al nulla) occorre che il tutto conservi la propria integrità, che l’uno rimanga indivisibile. Per la fede nel divenire la parte è invece separata dal tutto e lo spazio temporale è separato dal tempo eterno.
Cosicché avremmo l’assurdo di un tutto mancante delle sue parti e di un tempo eterno impossibilitato a manifestarsi nei necessari limiti temporali della mondanità.
Data per evidente ed indiscutibile la premessa di un mondo diveniente, una premessa che andrebbe invece discussa perché il divenire del mondo è tutt’altro che evidente, è perfettamente comprensibile come le conclusioni che dovrebbero condurre ad una definizione dell’essere portino a strade senza uscita.
Per una ratio calcolante così come per la percezione sensoriale costituisce certamente un problema condurre la molteplicità delle cose e delle forme ad una unicità sostanziale. Per la metafisica basata sulla razionalità calcolante e per l’empirismo votato fiduciosamente alla capacità conoscitiva dei sensi, la diversità delle cose e degli enti che appaiono nel mondo sono difficilmente riconducibili alla identità. Il tentativo più alto di giungere alla identità dei diversi è dato dalla dialettica hegeliana , la quale tuttavia non si compie mai in via definitiva, ripetendosi all’infinito il movimento che vuole l’ assunzione dell’altro da sé nello stesso sé per superarlo in un superiore e nuovo sé. Proprio perché anche la dialettica di Hegel è partecipe della dimensione diveniente, non si dà una circolarità compiuta, nella quale si riconosca una volta per sempre l’unità del molteplice.
Secondo una armonia ed una gioia del tutto che sono iscritte nella verità dell’essere.
Ma che la cultura dominante, sin dai suoi esordi, non può scorgere in quanto deviata irrimediabilmente da un retto percorso logico in cui prevalga una razionalità che non sia quella scientifica. Una razionalità cioè che non si basi su di un processo ipotetico e falsificabile, ma che proceda avendo in sé come fine la ricerca della verità, una ed incontrovertibile.
La discussione che siamo andati sin qui sviluppando non ha portato elementi del tutto nuovi rispetto a quelli già noti ai precursori della filosofia: ha tuttavia fatto proprie quelle analisi che conducono al punto fermo di una inconciliabilità tra l’essere ed il divenire. Che costituisce piuttosto una scelta di campo precisa che segna un distacco rispetto alla maggior parte delle teorie formatesi lungo tutto il corso della storia della filosofia.
La nascita della filosofia coincide con l'evocazione del nulla quale concreta opposizione all'essere.
Il nulla non è più soltanto il positivo significare di sé ma è quel 'solido nulla' di cui parla Leopardi (il primo pensatore capace di scandagliare l'abisso del nichilismo sino a vederne le radici) .
Ma come è stato possibile considerare ciò che non appare come il nulla? La pre-esistenza di ciò che appare limitatamente nel tempo come il provenire dal nulla e la sua successiva esistenza come il ritornare nel nulla? L'esperienza non può testimoniare alcunché rispetto al passato di ciò che sopraggiunge e allo stesso modo del futuro che lo attende quando non è più presente allo sguardo di chi si trattiene nell'apparire.
Tanto basterebbe per impedire di affermare che il passato ed il futuro di ciò che appare siano il nulla, magari nella forma edulcorata del non essere. La distinzione tra nulla assoluto (nihil absolutum) e non essere la dice lunga sui dubbi che tormentavano grandi pensatori come Platone ed Aristotele e tutti coloro che li hanno preceduti e seguiti.
Una differenza che avrebbe dovuto evitare l'errore del nichilismo: per quanto sottile e ben argomentata, tale differenza ha tuttavia la sembianza di un escamotage che non cambia la realtà delle cose.
La storia della filosofia è la storia del nichilismo e la distanza tra chi vede Dio e chi vede il Nulla, tra i naturalisti e gli spiritualisti, tra i nominalisti ed i realisti, tra i positivisti e gli idealisti è più legata alla forma che alla sostanza. Tutte teorie la cui distanza o opposizione è solo apparente, venendo meno rispetto alla stretta comunanza che le legano alla fede nel divenire, ovvero all'essere, tutte, di segno nichilista.
L'essere è la Totalità di ogni cosa, dell'apparire e del non apparire, ed in sé comprende come negato il nulla (la cui valenza sta unicamente nel suo positivo significare, ovvero nella necessità del suo nome perché il linguaggio possa dire dell'unica realtà dell'essere). In tal senso si può affermare, con Heidegger, che 'il linguaggio è la casa dell'essere'. Ma se per Heidegger l'essere è nella identità con l'apparire, fuori dal nichilismo, l'apparire è anche l'apparire della necessità del non apparire. Si vuol dire che il qualcosa di determinato in cui consiste sempre l'apparire esige una realtà più ampia della propria determinazione, una origine che la trascende e proprio perché trascendente, non appare.
Ma quando si pensa che il non apparire sia il nulla o il non-essere è quando non si riesce a comprendere come il non- apparire e l'apparire siano strettamente uniti nella totalità dell'Essere, ed il ciò che è (l'esistente) sia in stretta relazione con ciò che lo trascende, ovvero con tutto ciò che pur non apparendo non si può dire che non esista. Il fatto di non vedere una cosa non consente di affermare che questa cosa non esista.
Il nichilismo non riesce, come appena accennato, a comprendere come l'esistenza della singola cosa, dell'ente particolare sia possibile in quanto il proprio limite temporale e spaziale è il risultato del trascendentale. Il trascendentale (nome proprio dell'Essere) è l'illimitato, l'infinito. L'Eterno. L'esistenza di una cosa (il suo sopraggiungere nel cerchio dell'apparire) non inizia o termina con la sua presenza, in quanto essa è possibile per lo stare di ciò che la precede e la segue. E questo stare impedisce di concepire il prima ed il dopo di una presenza come assenza (ed in quanto tale come non essere o nulla).
Ma non potendo vedere il tutto (contraddizione C individuata da Emanuele Severino), non possiamo vedere la costituzione trascendentale che determina il limite della presenza temporale dell'ente.
Alberto Re

sabato 5 marzo 2011

COMPRENSIONE DELL'ESSERE - 2

L'ESSERE (2a parte)

L’evidenza dell’apparire delle cose, degli enti, sarebbe in qualche modo negata. Se non proprio semplici nomi, come sosteneva Parmenide, ciò che appare verrebbe posto in una relazione problematica con l’essere concreto, con la cosa in sé.
Se è vero, come si diceva poc’anzi, che ogni possibile conoscenza non può prescindere dalla percezione sensoriale del qualcosa che è, è però altrettanto vero che i sensi sono facilmente inclini all’errore; sono, per loro intrinseca natura, fallaci.
E dunque, se non si può fare cieco affidamento su di una assoluta autonomia della ragione, neppure si deve presumere una infallibilità dei sensi secondo il modo di un empirismo ingenuo. Le conclusioni raggiunte dall’empirismo puro fanno il paio con quelle raggiunte da una metafisica misticheggiante. Dove l’essere è compreso come uno sfondo irreale su di un palcoscenico reale (la vita) che vede incessantemente ora l’apparire, ora lo sparire, della infinita molteplicità di cose ed eventi che costituiscono il mondo. Questo mondo che a sua volta può essere considerato empiricamente come la sola realtà vera o può essere considerato misticamente come qualcosa di illusorio, avvolto com’è da un velo (il velo di Maia) che lo separerebbe dalla sostanza concreta dell’essere. Lo sfondo che costituisce la possibilità di ogni apparire continuerebbe in entrambi i casi a permanere in un alone impalpabile ed etereo.
Siamo in generale in presenza di una fede in una dimensione del reale eternamente diveniente. Una fede in cui non è avvertita la contraddizione di un eterno che rinuncerebbe alla sua natura di sostanza immutabile per mutare nelle infinite forme del divenire e di un divenire che condurrebbe ad una fissità eterna del mutamento.
Questa contraddizione che Nietzsche cercò vanamente di risolvere con la teoria dell’eterno ritorno ricorre costantemente alla base della cultura, di ogni tipo di cultura, dalla sua origine sino ai giorni nostri. Il linguaggio, che ne è l’espressione, ne rimane profondamente contaminato cosicché le definizioni dei concetti fondamentali per la conoscenza appaiono lontani dal cogliere il vero.
Termini come uomo, vita, coscienza, anima, mondo, storia, pace, guerra, bene, male etc…etc… assumono significati che non corrispondono alla verità dell’essere.
Forse anche per questo Parmenide considerava le cose del mondo come semplici nomi senza nessuna realtà. Fu per salvare il mondo dall’annientamento a cui sarebbe andato incontro tenendo per buona la tesi di Parmenide che Platone fu costretto in seguito a concepire gli enti come divenienti, a considerarli in rapporto con l’essere fin tanto che essi apparivano ed un nulla quando essi non apparivano più.
Non un nulla assoluto (nihil absolutum) certo, ma un nulla comunque sufficiente a negare il radicamento eterno di ogni cosa all’essere. Così, ad esempio, si giunge all’assurdo per cui il tempo che segue la morte dell’individuo non appartiene più al tempo eterno entro il quale stava il limite temporale del vissuto dell’individuo. L’essere che ha determinato l’esistenza dell’individuo ad un certo punto lo abbandonerebbe in una dimensione senza tempo. Ciò in aperto contrasto con la sua propria natura che rende possibile il limite temporale di ogni ente e l’esistente stesso unicamente se determinati all’interno del non-limite (apeiron) caratterizzante l’eterno.
Alberto Re

mercoledì 2 marzo 2011

COMPRENSIONE DELL'ESSERE - 1


A partire da oggi pubblico il mio saggio 'COMPRENSIONE DELL'ESSERE'. Lo pubblico dividendolo in brani che abbiano più o meno la stessa lunghezza.


AVVERTENZA

Ad un lettore attento ed informato non sfuggirà che le mie annotazioni sono in larga misura ispirate dalla filosofia di Emanuele Severino. Se il cuore della filosofia è la ricerca della verità, allora Emanuele Severino, se non il solo, è certamente tra i pochi che continuano a sostenere la centralità della filosofia rispetto ad ogni altro sapere specialistico, a evidenziare che unicamente dalla filosofia può venire una critica o una messa in discussione della filosofia stessa. Ed è ciò che Severino, da la ‘Struttura originaria’ sino a ‘La Gloria’ ed ‘ Oltrepassare’ passando per ‘Essenza del Nichilismo’ e ‘Destino della Necessità’ (per citare solo alcuni dei testi più significativi) fa. Pur evidenziando la grandezza della filosofia nel corso della sua storia, riesce a scorgere in questa grandezza un errore decisivo che ha segnato tutta la cultura occidentale ed ormai del mondo intero: la fede nel divenire. Egli vi contrappone l’eternità di ogni essente, dal più effimero al più elevato. L’eternità del tutto è nel destino della necessità. In questo nesso indissolubile ed incontrovertibile sta la verità, che parla all’uomo della sua Gloria e della sua Gioia.
Fatta questa doverosa avvertenza, va anche detto che ‘Comprensione dell’essere’ non è un trattato critico del pensiero di Severino, ma ha una sua ‘autonomia originale’ , volendo essere un contributo modesto e tuttavia seriamente impegnato a seguire la strada che porti ad una ‘Filosofia Futura’.



“Quando ai popoli apparisse l'eternità di ogni cosa, incomincerebbe ad apparire un mondo inaudito di abitare la Terra. E se l'uomo è volontà, ossia volontà che qualcosa divenga altro, il tramonto del divenir altro sarebbe il tramonto dell'uomo, ossia sarebbe l'apparire dell'oltre l'uomo”
EMANUELE SEVERINO da 'Nascere'




L'ESSERE

Dai primordi della filosofia, prioritaria e fondamentale è sempre stata l’interrogazione sull’essere.
D’altro canto si deve dire che la filosofia è essenzialmente filosofia dell’essere.
Ma nonostante che il problema sia stato sviscerato in tutti i suoi aspetti e da ogni lato, esso rimane tuttora insoluto.
E’ che l’essere sfugge a qualsiasi tentativo di oggettivazione. Esso non è percepito direttamente ma solo attraverso la presenza dell’ente, del ciò che è, della determinazione del qualcosa. Avviene che il fondamento esistenziale che rende possibile la determinazione del qualcosa rimane nascosto alla vista di quell’ente particolare (perché l’unico dotato di pensiero) che è l’uomo. Da parte dell’uomo c’è insomma visione della molteplicità delle cose che appaiono ma non della causa che rende possibile il loro apparire.
La luce che avvolge ogni singola esistenza e che è all’origine del proprio apparire si nega dunque alla percezione sensoriale dell’uomo. Questa luce che la ragione intuisce essere lo sfondo necessario per l’apparire di ogni cosa, non appare.
Una differenza ontologica che è carica di profonde conseguenze. La prima delle quali induce a pensare l’essere come pura entità metafisica, che è cioè al di là ed altro rispetto alla molteplicità degli enti. Di qui alla confusione dell’essere con il nulla il passo è breve così come lunga è la strada che contrassegna la storia della filosofia come storia del nichilismo.
Non che in tutti i grandi pensatori non sia ben chiara la netta opposizione tra l’essere ed il nulla. Il nichilismo non arriva mai alla negazione del reale. Ciò che rende possibile il nichilismo è la speculazione di segno negativo su ciò che, non apparendo, costituisce tuttavia la radice di tutta la realtà. Che esista una radice comune per ogni manifestazione del reale è parimenti compreso da tutti i grandi filosofi, per i quali ogni cosa non può originarsi da sé come fosse il risultato del tocco di una bacchetta magica, ma è in relazione alla universalità di ogni altra cosa, presente, passata e futura. Tuttavia l’impossibilità di avere esperienza dell’essere come la si ha di ogni ente particolare porta alla sua definizione come non-ente. Il ni-ente e l’essere, nonostante ogni ragione e volontà contraria, diventano la stessa cosa. Ed è questa sensazione, più profonda dell’inconscio studiato dalla psicoanalisi, che investe la vita del mondo che viviamo. E che è all’origine dello stato di conflitto permanente, dell’angoscia, della paura, del dolore. Della follia.
C’è evidentemente un errore che precede la natura stessa del pensiero umano, iscrivendosi nel destino stesso dell’essere. Quel destino che informa il tempo dell’uomo (la sua storia come la sua preistoria) portando con sé il segno di una verità che non può o non vuole mostrarsi nella sua totalità, nascondendosi invece dietro l’oblio di ciò che la costituisce, ovvero dell’essere.
D’altro canto il senso che conferiamo all’essere non appartiene ad uno dei cinque sensi attraverso i quali noi possiamo percepire la realtà e che costituiscono i mezzi attraverso i quali si dà la conoscenza. E che rappresentano altresì l’a-priori necessario perché si possa dare forma alle stesse idee, che proprio perché superano la materialità soggetta al riconoscimento dei sensi, dai sensi trovano il proprio alimento per la produzione di ciò che è astratto. L’astrazione intellettiva per essere oggetto di conoscenza non può dunque porsi prescindendo dalla realtà sensoriale o addirittura prefigurando il proprio risultato a partire dal cosciente disconoscimento dell'apporto dei sensi. Una siffatta formulazione metafisica riuscirà al meglio a sconfinare in un vuoto misticismo che ha come sua caratteristica quella di non avere alcun rapporto con nessun oggetto o forma eidetica. Per il misticismo il tutto è il nulla ed il nulla è il tutto. Calandosi il pensiero in questa prospettiva, è chiaro che le idee sull’essere che sono andate via via prospettandosi non sono riuscite a dire nulla sulla realtà dell’essere stesso. Hanno prodotto anzi intorno al problema dell’essere un alone di mistero che non ha ragione alcuna di persistere. Ma che ha contribuito largamente a determinare l’errore fondamentale di una identità tra l’essere ed il nulla che è la causa principale della vita alienata.
Dunque la via del misticismo non solo non porta da nessuna parte, ma è carica di conseguenze nefaste al fine di un corretto uso della ragione. Per il quale uso resta interamente valido quanto affermato da Kant.
Ponendo chiari limiti alla ragione pura ed alla ragione pratica, si evitano certamente fughe in avanti del pensiero in una regione metafisica dove non esisterebbero confini per ogni tipo di fantasia o credenza.
Questi stessi limiti determinerebbero però, all’opposto, l’impossibilità di dare ragione ed espressione alla illimitatezza della realtà dell’essere. Una realtà che continua così a rimanere nascosta, questa volta a causa della presunta inconoscibilità della cosa in sé.
(continua)
Alberto Re

venerdì 25 febbraio 2011

UNA SVOLTA FILOSOFICA - PAROLE


PAROLE

Cerco parole che non trovo sul mio vecchio vocabolario.
Cerco parole che mi facciano capire il senso dell'esserci nel mondo.
Quelle sin qui usate e abusate non riescono più a spiegarmelo.
Che cos'è l'io? Che cos'è il sé?
Che cos'è la vita? Che cos'è la morte?
E poi anima, spirito, coscienza, intelligenza, ragione, cosa sono?
Gli uomini più saggi hanno scritto volumi intorno a queste astrazioni,
convinti in cuor loro di essersi impossessati della loro conoscenza.
Peccato che hanno impiegato altre astrazioni come 'logica', 'dialettica', 'fenomenologia',
'empirismo', etc...etc...', anche loro bisognose di una chiarificazione.
Nessun dubbio sulla grandezza del pensiero di un Aristotele, di un Cartesio, di un Kant,
di un Heidegger e così per decine di altri filosofi.
Per anni la lettura delle loro opere è stata avvincente e formativa.
Ma ora mi accade qualcosa di strano:
i concetti acquisiti ed elaborati nella concretezza del farsi carne e sangue
lasciano il posto ad una sensazione di vuoto.
Di ogni parola scritta rimane il segno grafico.,
di ogni parola detta un suono indistinto.
E' il senso che sin qui l'accompagnavano che svanisce e si smarrisce.
Il bello è che non mi sento affatto orfano di quel poco di conoscenza che credevo di possedere;
al contrario è come se mi liberassi di un fardello che appesantiva il pensiero.
Se ci immaginiamo come una casa e la filosofia come l'aria che vi si respira, che si fa in una casa quando l'aria si fa pesante e rarefatta? Si aprono le finestre perché entri aria nuova e fresca.
Non si può e non si deve cancellare quanto della vecchia filosofia è impresso nella memoria.
Per riprendere la metafora appena utilizzata, si possono però aprire le finestre del pensiero per favorirne la fuoriuscita.
Quel che la filosofia che storicamente si vuole inaugurata da Talete ha dato, ha dato.
Punto e daccapo.
Ora abbiamo dinanzi un orizzonte meraviglioso, dove si cominciano ad udire parole mai udite, ad intravedere forme mai viste. Abilitiamo la nostra stessa casa per essere pronta a ricevere una luce mai apparsa.

martedì 22 febbraio 2011

CANZONI - Testi


Nell'epoca che viviamo la canzone costituisce uno straordinario mezzo di comunicazione.
Certo molte di esse non riescono a superare il livello della 'chiacchera quotidiana' (son quelle che eufemisticamente si definiscono 'orecchiabili'), ma molte per la qualità della musica e dei testi questo livello lo superano per offrirsi come autentico prodotto culturale.
In relazione ai testi abbiamo voluto distinguerle in tre categorie: Canzoni d'Amore, Canzoni Sociali, Canzoni Esistenziali.
Apriamo la rubrica riportando le parole di una dolce canzone d'amore di Francesco Guccini: La Canzone della Colomba e del Fiore.
Alberto Re

CANZONE DELLA COLOMBA E DEL FIORE
di Francesco Guccini

Amore, s'io fossi aria, le tue rondini vorrei, per guardarmele ogni minuto e farle volare negli occhi miei, quelle rondini bianche e nere che anche mute dicono tanto: tutta la gioia di mille sere ed un momento solo di pianto ed un momento solo di pianto ed un momento solo di pianto ed un momento solo di pianto...
Amore, mai sarò stanco di bermi tutto il tuo miele, quando ridi o quando mi parli in me si gonfiano mille vele ; quando un sogno od un tuo segreto ti fan seria e sembri rubata, guizzan pesci tra i tuoi due fiori, rivive l' anima mia assetata rivive l' anima mia assetata, rivive l' anima mia assetata rivive l' anima mia assetata...
Amore, pensa s'io avessi una torre colombaria per far posare le tue due colombe stanche di volare in aria, vederle alzarsi dritte nel cielo e atterrare fra le mie mani per carezzarle dentro ai miei oggi e baciarle fino a domani e baciarle fino a domani, e baciarle fino a domani e baciarle fino a domani...
Amore, nel mio giardino vorrei fiorisse la tua rosa perchè l' anima mia si perda dove il corpo rinasce e riposa, quella rosa di primavera sempre rorida di rugiada, misteriosa come la sera, balenante come una spada balenante come una spada, balenante come una spada, balenante come una spada....
Amore, colomba, fiore, amore fragile e forte, sfrontatezza e pudore, compagna di gioia e sorte, sapore amaro e dolcezza, con l' arcobaleno fra le dita, vorrei perdermi nel tuo respiro, vorrei offrirti questa mia vita vorrei offrirti questa mia vita, vorrei offrirti questa mia vita, vorrei offrirti questa mia vita...

martedì 8 febbraio 2011

CHE VITA E' ?


Nella alienazione che impedisce il riconoscimento del proprio sé, dove in ogni vissuto della vita, in ogni rapporto intramondano l'ego è altro da sé, non si può far altro che accettare la vita, accettare la costrizione della nascita e della morte. L'istinto di conservazione e di sopravvivenza ( con Eros il segno più potente della volontà) esime dal ricorrere al pensiero nel discernimento critico del senso della vita. Questo tempo, il tempo della massima estensione della follia nichilista, non è ancora il tempo propizio perché l'umanità possa seriamente pensare a ciò che chiama vita. In questo contesto, ovvero in un mondo abbandonato dalla verità, pensare la vita sarebbe estremamente pericoloso. Senza più nessuna specie di Dio a cui aggrapparsi, l'umanità si troverebbe in uno stato di smarrimento e di disorientamento assai più grave di quello in cui già si trova.
Si sarebbe tentati di affermare che, allo stato delle cose, sia preferibile che prevalga la chiacchiera, che si creda che il non-senso abbia un senso.
Addirittura si potrebbe giungere a giudicare la follia un bene, se la follia permette di vivere una vita dove al dolore succede la noia, alla noia la disperazione, alla disperazione l'alienazione e così via. La felicità è assente, perché ciò che viene chiamato felicità o è semplicemente momentanea assenza di dolore o è il prodotto di allucinazioni della mente (si veda, a titolo esemplificativo, lo stato erotico-sentimentale dell'innamoramento). Si può allo stesso modo dire che la felicità è un sogno che perdura anche nello stato di veglia, o presunta tale.
Quando Leopardi afferma che la verità è un male e ad essa è preferibile l'illusione, coglie nel segno: se è la vita che si vuol salvare, allora è necessario che l'umanità continui a cullarsi nelle illusioni, a sognare. L'esser desti, l'esser nella verità, costringerebbe l'uomo a vedere nella vita il nulla, 'il solido nulla'.
Certo, la verità di cui parla Leopardi è la verità del pensiero nichilista (ovvero della intera filosofia), ma il senso delle sue parole rimane inalterato.
Ma se è l'ignoranza a salvare la vita, che vita è quella che viviamo?
Già abbiamo accennato che in essa è preclusa la felicità, ovvero l'aspirazione più alta dell'essere umano. Il che conduce conseguentemente alla conclusione che nella ignoranza l'uomo inconsciamente rinuncia alla felicità a favore di una vita segnata dal dolore e dall'angoscia. E vi è angoscia perché, sempre nella ignoranza, non si riesce a comprendere che 'la natura della vita è la morte'.
In Heidegger 'l'essere per la morte' che è costitutivo 'dell'esserci', sarebbe senz'altro un concetto logicamente inattaccabile, se non fosse per la particella 'per' che indica un movimento dell'essere verso la morte. E' la fede nel divenire che impedisce ad Heidegger di affermare semplicemente ma veritativamente che 'la vita è la morte' e 'la morte è la vita'.
La totale rimozione nell'inconscio dell'inconscio di questa equivalenza fa sì che si generi la paura della morte, paura accompagnata dalla deiezione ed angoscia esistenziali. Una paura che altrimenti non avrebbe ragione di sussistere, stante la reciprocità di senso che connaturano vita e morte.
Tanto che appare più che legittimo il dubbio che la paura della morte nasconda in sé la vera paura, che è 'la paura della vita'. La vita fa paura perché è nel tempo, quel tempo finito che impedisce di cambiare il passato, che non ha presente perché nulla persiste, che ignora il futuro consegnandolo alla totale imprevedibilità. E se i viventi sono, come sono, gli abitatori del tempo, essi 'vivono la morte', secondo dopo secondo, minuto dopo minuto, ora dopo ora, etc. nella scansione della misura matematica che si sono dati e che, nell'epoca attuale, è raffigurata dalla immagine dell'orologio.
Entro la dimensione creduta diveniente del mondo, il passare del tempo è il suo 'consumarsi', il suo 'esaurirsi' sino al termine designato della morte. La quale, nella verità dell'essere, costituisce la perfezione della vita, il 'perfectum' indiveniente di contro alla successione diveniente della vita vissuta. Non solo la morte non è annichilimento della vita, bensì, al contrario, è la negazione del suo annichilimento. Nella verità dell'essere, abbiamo un rovesciamento radicale del significato della morte e di converso della vita. Nella verità il vivente vivrebbe la vita come eterna attualità il che presupporrebbe l'inesistenza della morte. Il fenomeno della morte non verrebbe più assunto quale scacco drammatico e doloroso ma si darebbe come inglobamento nel senso autentico del vivere. Quel senso che rende possibile la felicità, venendo meno l'angoscia che accompagna l'interpretazione nichilistica della vita come esistenza (da ex-sistere ovvero lo 'stare fuori dall'essere').
Lo stare nell'essere, viceversa, è l'attualizzazione eterna degli infiniti enti che sorgono e tramontano, si presentano e si assentano, sono il 'qui ed ora' vissuto ed il ricordo, 'qui ed ora', del vissuto. Nella dimensione che vede il trionfo della gioia, il vivente non è l'ente che consuma il tempo e ne è consumato, perché non vi è alcun tempo da consumare. Se il vivente è l'uomo, egli è già nell'oltrepassamento del proprio esserci intramondano, egli è già oltre la condizione attuale di abitatore del tempo.
Ma sino a che resiste la follia nichilista, la vita è dolore e la morte fa paura.
Il pensiero subendo il predominio della volontà, si perde nella chiacchiera o si culla nelle illusioni.
Tuttavia per quanto potente, la volontà non è in grado di eliminare il pensiero.
Può cercare di nasconderlo, di deviarlo, perturbarlo, sconvolgerlo: mai annichilirlo. Perché il pensiero è indissolubilmente legato all'ego, alla componente cosciente dell'essere umano. Ma l'ego del pensiero (l'ego che pensa e si pensa) è profondamente diverso dall'ego che si forma sulla volontà.
Mentre l'ego 'volitivo' è l'errore che conduce alla follia, l'ego pensante nello stesso momento in cui pensa o si pensa è già nel suo proprio oltrepassamento. Non è più riconducibile all'ego 'volitivo'. L'oltrepassamento dell'ego, sciogliendo le catene che lo legano alla volontà, è apertura all'ego autentico, all'eterno riflettersi dell'Essere. In uno nell'Essere, l'ego, la vita, il mondo assumono significati inauditi, non rappresentando più alcune tra le molteplici forme in cui si manifesta l'errore della fede nel divenire.
Con il tramonto dell'ego, della vita, del mondo, in quanto costituiti dalla volontà, non avrebbero più ragione d'essere tutta quella serie di problemi che è connessa alla alienazione di ciò che è altro da sé, a partire, come si è sin qui evidenziato, dall'ego.
Quando non si ha timore di pensare (ovvero di mettere tutto in discussione, radicalmente, e di aprirsi così all'inaudito), non c'è bisogno di 'accettare' la vita e di credere nella esistenza della morte. Non c'è bisogno, perché non esistono più i presupposti (la fede nel divenire) che determinano il loro significato corrente.

Alberto Re

domenica 6 febbraio 2011

EMANUELE SEVERINO - 1


Pubblichiamo il primo di una costante serie di interventi di Emanuele Severino, il cui pensiero è per noi costitutivo per l'avvento di una 'Filosofia Futura'.
Si richiama la sua biografia pubblicata il 17 gennaio 2011.

Un orizzonte etico per il nostro tempo
di Emanuele Severino

Si è generalmente propensi a pensare che le parole “etica” e “tecnologia” indichino due dimensioni
molto distanti tra loro, se non addirittura incompatibili. Ancora si fa fatica a scorgere che, all’opposto, tali dimensioni sono entrambe espressioni della stessa anima, e cioè che la nobiltà impotente dell’etica e la ruvida potenza della tecnica sono, all’opposto, due configurazioni dello stesso atteggiamento fondamentale.
Intendo chiarire brevemente questa affermazione, considerando come equivalenti le espressioni “tecnologia” e “tecnica” (senza con questo escludere che in vista di certe elaborazioni concettuali la differenza semantica tra le due espressioni non possa essere perduta di vista). Aggiungo che il discorso rimane circoscritto nell’ambito della civiltà occidentale.
Le parole “etica”, “tecnologia”, e la parola “logos” che insieme a “téchne” forma la parola “tecnologia”, sono greche, cioè parole del linguaggio e del pensiero che sta alla radice della nostra
civiltà.
Lungo la Storia dell’Occidente l’etica compare con un senso che è ben lontano dall’impotenza che compete a ciò che abbiamo chiamato “nobiltà impotente”. “Etica” è parola derivata da “éthos”, che
originariamente significa “luogo in cui si abita”, “dimora”. Il luogo in cui si abita e la dimora devono essere luoghi “sicuri”. Al di là di ogni espediente per renderli sicuri, l’uomo pensa che la sicurezza dell’abitare è possibile solo se, da ultimo, l’abitare stringe una alleanza con la potenza che gli abitatori ritengono suprema. Già nell’esistenza mitica la potenza suprema è il divino.
Con il pensiero greco la potenza suprema è il divino quale appare all’interno del vero e supremo sapere dell’uomo, la filosofia. L’uomo greco abita la polis, in quanto la vede come luogo sicuro che
è potente perché è alleato con la vera e suprema potenza del divino. Il divino appaga con la sua potenza le aspirazioni dell’uomo. Esse credono di poter essere accolte dal divino perché credono di
essere in accordo – alleate – con l’ordinamento divino del mondo.
Attraverso un processo la cui profondità e inevitabilità sfuggono ancora a gran parte della nostra cultura, il nostro tempo è giunto alla convinzione che la potenza suprema non è più il divino che appare nella verità del sapere filosofico, ma è la tecnica.
Tuttavia anche in questo caso l’idea della potenza suprema della tecnica è debitrice della propria esistenza al pensiero filosofico – in questo caso, al pensiero filosofico del nostro tempo. Oggi anche la gente pensa che a muovere le montagne non sia più la fede religiosa, ma la tecnica (che peraltro è essa stessa una forma di fede).
Se l’etica è l’abitare sicuro e potente, che è tale per l’alleanza che gli abitatori stabiliscono con ciò che essi ritengono la potenza suprema, oggi l’etica è l’alleanza dell’uomo con la tecnica. L’uomo etico è colui che si mantiene all’interno di questa alleanza. Come la parola “etica”, così la parola “virtù” è andata perdendo il proprio significato originario, che è, daccapo, “potenza”, “forza”. “Virtù” (i Latini dicono “virtus”, i Greci “areté”) è l’insieme delle disposizioni e qualità che è necessario possedere affinché l’abitare possa stare in alleanza con la potenza suprema, diventando così veramente potente. Il virtuoso è il veramente potente. La distruzione dell’alleanza con Dio, da parte dell’alleanza con la tecnica, passa attraverso il dominio del capitalismo, ma va anche oltre questo dominio. L’etica della tecnica passa attraverso l’etica del capitalismo, dove l’uomo (imprenditore o lavoratore) si allea all’incremento indefinito del profitto; ma oltrepassa l’etica del capitalismo – che è “etica”, appunto in quanto il capitalismo è stato ed è tuttora ritenuto la forma suprema di potenza. La tecnica, infatti, non è il capitalismo.
Oggi si consiglia all’operatore economico di essere “etico” e “virtuoso” perché solo in questo modo il profitto è più sicuramente garantito. Ma in questo modo non solo si trattiene l’etica al suo significato tradizionale, ma anche si altera questo significato. Infatti essere “etici” per incrementare la ricchezza è cosa diversa dall’arricchirsi per dar vita all’abitare dove si può stabilire l’alleanza con la suprema potenza del Dio – sì che l’“etica” (e la “virtù”) come mezzo per realizzare la ricchezza è cosa diversa dall’“etica” (e dalla “virtù”) come scopo della ricchezza; e a sua volta la ricchezza come mezzo per essere “etici” (e “virtuosi”) è cosa diversa dalla ricchezza come scopo dell’“etica” (e della “virtù”). Allearsi alla potenza suprema per arricchire è cosa diversa dall’arricchire per mettersi in condizione di condurre una “vita buona”, cioè di allearsi alla potenza suprema. La tecnica non è il capitalismo – anche se il capitalismo, ancora, intende servirsi (si illude di potersi servire) della tecnica come di un semplice mezzo per l’incremento del profitto.
Indichiamo almeno uno dei motivi per i quali deve essere affermata la differenza, e anzi l’opposizione, tra tecnica e capitalismo. Come potenza suprema, la tecnica intende ridurre sempre
più quella forma di impotenza che è la scarsità, cioè la penuria dei beni di consumo. Il capitalismo, all’opposto, vive solo se perpetua la scarsità a un livello mediano, dove i beni di consumo non sono a disposizione di tutti senza bisogno di compravendita, e nemmeno sono troppo rari e dunque economicamente inaccessibili.
Ciò significa che il capitalismo, servendosi della tecnica, si serve di un mezzo che mira a uno scopo opposto a quello che il capitalismo si propone. Si serve di un mezzo che ostacola il proprio scopo – lo scopo, appunto, del capitalismo.
La potenza suprema della tecnica non è infatti indirizzata a uno scopo escludente altri scopi, ma all’incremento indefinito della capacità di realizzare scopi, escludendo solo il loro carattere escludente; laddove lo scopo del capitalismo è escludente – non solo perché esclude che l’incremento del profitto sia sostituito da altri scopi, ma anche – come si è detto – perché intende impedire che il livello mediano della scarsità sia sostituito dall’abbondanza senza limiti. Ma la penuria dei beni di consumo è forse la forma più rilevante della penuria di ciò che l’uomo desidera.
Sì che, mentre il capitalismo perpetua la penuria delle merci per sopravvivere – e tende a trasformare ogni forma di penuria in penuria di merci – , la tecnica ha invece come scopo l’eliminazione di ogni forma di penuria, e dunque anche la penuria di ogni bene di consumo.
Lo scontro tra il capitalismo e il proprio strumento, cioè la tecnica, indica il declino cui il capitalismo è destinato. L’etica del capitalismo tramonta perché l’agire capitalistico finisce con l’assumere come scopo l’etica della tecnica, cioè l’aumento indefinito della capacità di realizzare scopi. Questo rovesciamento, dove lo scopo originario del capitalismo diventa il mezzo per il potenziamento della tecnica, è l’instaurarsi della nuova alleanza dell’uomo etico con la tecnica. Il rapporto tra capitalismo e tecnica è analogo a quello che tutte le grandi forze della tradizione dell’Occidente intendono instaurare con la tecnica: come il capitalismo, così anche l’umanesimo, il
cristianesimo, la democrazia, il comunismo, l’islamismo intendono servirsi della tecnica come di un
semplice strumento per realizzare i loro scopi. La conflittualità tra queste forze diverse – cioè tra queste diverse forme di etica – spinge inevitabilmente verso un esito dove il loro scopo diventa il potenziamento dello strumento tecnico con cui ognuna di esse vorrebbe realizzare il proprio scopo escludente. Tuttavia la tecnica riesce a essere la potenza suprema con cui l’etica della civiltà della tecnica riesce ad allearsi – cioè l’etica, alleandosi con la tecnica, riesce ad allearsi con la potenza suprema –, solo se la tecnica non è concepita con i parametri che sono propri della tecnica stessa e della scienza del nostro tempo.
La tecnica riesce a essere la potenza suprema solo al termine del processo, già in atto ma ancora lontano dal proprio compimento, che consiste nell’unione della tecnica al risultato essenziale del pensiero filosofico degli ultimi due secoli.
L’incremento indefinito della potenza della tecnica presuppone infatti, nella tecnica, la coscienza che non esistono e non possono esistere limiti assoluti al suo agire, e soprattutto che non può esistere quella forma della potenza che, nella tradizione dell’Occidente, è stata ritenuta la potenza
suprema e divina con cui l’uomo si è alleato, assicurando così il suo abitare la terra.
La tecnica può essere la potenza suprema cui l’uomo può allearsi ed essere l’uomo etico del presente, solo se appare che la forma tradizionale dell’etica è una impossibilità. Ma non è all’interno della tecnica e della scienza che questa impossibilità può essere portata alla luce: tale impossibilità è il risultato essenziale del pensiero filosofico del nostro tempo, che dunque non è una riflessione estrinseca sulla potenza, ma è la condizione necessaria affinché possa esistere la tecnica come la potenza attualmente suprema.
Nella misura in cui sta dinanzi agli occhi della tecnica, l’esistenza di un Dio e di un ordinamento divino e immutabile del mondo limita l’agire dell’uomo e dunque l’agire tecnico. Nella misura in cui
dinanzi a quegli occhi appare invece ciò che la filosofia del nostro tempo ha chiamato “morte di Dio”, la tecnica può spingersi oltre i limiti che le sono imposti dalla vita di Dio. Ma, anche qui, altro
è che essa veda quella morte con gli occhi di una semplice fede, di un semplice e indeterminato rifiuto della tradizione, che, come l’atteggiamento religioso, è a sua volta una fede; altro è che veda quella morte con gli occhi del sapere essenziale della filosofia del nostro tempo, che non è una fede, ma riesce a scorgere l’impossibilità di ogni ordinamento immutabile e divino e quindi di ogni etica in cui si stabilisca l’alleanza con esso.
Il discorso che abbiamo sviluppato non esprime un progetto, un desiderio, una volontà, un suggerimento, un consiglio. Nel suo significato più profondo – che sta al di là della stessa dimensione in cui si muove la filosofia contemporanea – la filosofia non dice che cosa i popoli devono fare e volere, ma che cosa sono destinati a fare e a volere. In relazione alla situazione storica presente, dice a quale potenza suprema i popoli credono sempre di più di doversi alleare, ossia dice che il Pianeta è destinato alla dominazione della tecnica, intesa nel senso concreto a cui
abbiamo accennato, cioè come unione tra apparato scientifico-tecnologico e risultato essenziale del pensiero filosofico del nostro tempo – un risultato essenziale, peraltro che a sua volta attende ancora di mostrare in piena luce la propria inevitabilità.
Ma, soprattutto, il discorso che abbiamo sviluppato non intende affermare che l’unione di tecnica e
pensiero filosofico del nostro tempo sia l’ultima parola. Tale unione sta certamente prendendo la parola e la sua voce è destinata a soverchiare a lungo le altre. Ma in questa sede si deve lasciare aperta la questione decisiva, quella in cui ci si chiede che cosa sia e quale sia “l’ultima parola”.

lunedì 31 gennaio 2011

I GRANDI POLITICI: ALDO ANIASI

Profondamente legato alla città di Milano, Aniasi ha rappresentato nei prestigiosi incarichi ricoperti un esempio di passione e dedizione al bene della collettività”.
Il Presidente Emerito Carlo Azeglio Ciampi

Nell'attuale deserto culturale ed ideale della politica, diversi esponenti politici del passato, anche recente, assumono un rilievo particolare. Perché vi si riconosce in essi una capacità politica, un impegno ideale e civile, una onestà e valore intellettuale che oggi sono qualità del tutto scomparse.
Tra questi grandi politici, un posto in primo piano spetta ad Aldo Aniasi.
Di Aldo Aniasi ho la facoltà di poterne parlare con giusta causa per averlo conosciuto di persona, per avere avuto l'onore di godere della sua amicizia.
Grazie a questa amicizia, posso affermare che Aldo Aniasi oltre alle indiscusse qualità politiche è stato un uomo di grandissima umanità, di una educazione ed amabilità uniche, di una sensibilità nel comprendere il prossimo che si trova solo lungo il solco del socialismo umanitario. Nella storia culturale di Milano poi, Aldo Aniasi rimarrà per sempre tra le figure più rappresentative. Il Circolo De Amicis, da lui fondato, rappresenta senza alcun dubbio una associazione culturale di livello e fama mondiali.
Ma vi è una cosa che va al di là delle diversi fedi politiche e che accomuna tutti gli uomini veri: il riconoscimento di Aldo Aniasi come Simbolo del Combattente per la Libertà. Imperituro onore al Comandante Iso! Esempio fulgido di amore per la patria in uno spirito di fratellanza universale.
Solo se si riparte da esempi come questo può conservarsi una speranza di rinascita per questa povera Italia, oggi umiliata e derisa a causa di coloro che 'Iso' ha sempre fieramente combattuto.
Dalla breve biografia che riportiamo di seguito è d'obbligo sottolineare il passaggio in cui si dice che egli 'sostenne la necessità di disarmare le forze di polizia'.
Orbene, la necessità di disarmare le forze di polizia oggi è ancora più forte ed impellente. Poiché il Governo del Paese è nelle mani dei seguagi di Licio Gelli (P2), le forze armate di polizia costituiscono un pericolo serio per il popolo e per quel poco di sistema democratico che resiste, costituendosi di fatto a difesa dei Poteri Forti (Grande Capitale e servi al seguito).
La parola d'ordine dei 'Nuovi Partigiani' deve essere: DISARMIAMO LO STATO!
Alberto Re


Dalla Fondazione a lui intitolata abbiamo tratto i punti salienti della sua biografia.


FONDAZIONE ALDO ANIASI (sito internet http://www.fondazionealdoaniasi.it/)


Partecipò alla lotta di liberazione nelle file delle Brigate Garibaldi organizzate dal Partito Comunista Italiano, prendendo il nome di battaglia di Iso Danali (anagramma imperfetto del suo vero nome, più noto come Comandante Iso.). Da partigiano, combatté in Valsesia e successivamente in Ossola, diventando comandante della divisione partigiana “Redi”, al termine della Guerra era a capo della piazzaforte di Milano come componente del C.L.N.I., in tale veste celebrò un matrimonio che, al termine del conflitto, fu ritenuto valido e trascritto all’anagrafe, in quanto allora egli costituiva senza dubbio la massima carica civile i Milano.
Negli anni successivi alla guerra, è succeduto a Ferruccio Parri nel ruolo di presidente della Federazione Italiana Associazioni Partigiane.
Dopo la seconda guerra mondiale entrò in politica. Abbandonate le posizioni del PCI, militò prima nella corrente riformista del PSI, poi nel PSDI e successivamente di nuovo nel PSI. Ebbe una brillante carriera politica: consigliere comunale di Milano dal 1951, fu quindi assessore e, a partire dal 1967, sindaco del capoluogo lombardo. In tale occasione suscitò molte critiche quando, negli anni di terrorismo ad opera delle BR, sostenne la necessità di disarmare le forze di polizia. Fu lo stesso Aniasi a dare l’appoggio ai “comitati per una Polizia democratica” (il primo nucleo del sindacalismo in Polizia) che portavano dall’interno del corpo, l’istanza di smilitarizzazione (culminata con la legge 1 aprile 1981, numero 121)
Guidò la città fino al 1976, quando venne eletto alla Camera dei Deputati, dove rimase per cinque legislature, fino al 1994, e diventandone per 9 anni vicepresidente. All’inizio degli anni Ottanta fu per due volte ministro della Sanità, nei governi presieduti da Francesco Cossiga e Arnaldo Forlani; si deve a lui l’istituzione del servizio sanitario nazionale gratuito ed uguale per tutti. Fu quindi ministro per gli Affari regionali nei due governi Spadolini.
Amministratore di ospedali, consigliere della BNL. Fondatore dell’A.N.E.A. (Associazione Nazionale Enti di Assistenza), Aniasi fu decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare durante la Resistenza come Comandante partigiano e di Medaglia d’Oro “al Merito della Istruzione e della Cultura” per la sua attività politico-istituzionale.Dopo la crisi e lo scioglimento del Partito Socialista aderì al progetto dei Democratici di Sinistra, entrando nella direzione del partito.
QUARTO STATO

domenica 30 gennaio 2011

150 ANNI D'ITALIA


Non sono necessari lunghi discorsi.
Fatti salvi gli ideali risorgimentali ed il coraggio di combattente di Garibaldi, l'Unità d'Italia è nella verità storica il prodotto di un atto imperialista ed oppressivo del Regno Sabaudo, che all'epoca condivideva con lo Stato Pontificio il primo posto tra gli Stati Europei per la ferocia e la crudeltà esercitate nei confronti dei rispettivi sudditi.
Festeggiare l'Unità d'Italia? Sulla base di questi presupposti no di certo.
Solo attraverso la Lotta Partigiana, la ignominiosa fuga dei Savoia cui seguirono la nascita della Repubblica e la Costituzione di uno Stato di Diritto, è possibile trovare le motivazioni per amare la terra dei nostri padri.
Ma non basta. Occorre avere coscienza che l'attuale condizione dell'Italia esige la continuazione della Lotta Partigiana. Soprattutto in quest'ultimo ventennio (probabilmente peggiore di quello fascista, e non è una esagerazione affermarlo), il suolo italico è infangato da politici miserabili o, nel migliore dei casi, inetti e pusillanimi.
Se prima agivano in segreto, ora gli adepti della P2 sono usciti allo scoperto ed occupano tutti i più importanti e delicati posti di potere. Possiamo forse aspettarci da costoro di conoscere finalmente gli autori delle stragi che hanno insanguinato il suolo patrio? Proprio da quelli che almeno moralmente ne sono responsabili? Sostenuti da una ristretta cerchia di capitalisti che detiene il 95% della ricchezza nazionale, quale interesse avrebbero questi miserabili politici ad operare per una giusta politica fiscale? E' poi perlomeno utopistico sperare in un affrancamento dalla servitù subita da quella potenza guerrafondaia che porta il nome di Stati Uniti. Si potrebbe continuare a lungo, ma la malinconia mi assale. E con la malinconia lo sconcerto nel vedere come la maggior parte dei miei concittadini sia ridotta ad una massa di coglioni che indifferentemente vota per le veline o per scegliere chi si è già scelto. Protervia mascherata da Democrazia. Povera Democrazia, dove sei?
Quando le canaglie ed i loro servi (giornalisti, magistrati, forze del disordine) saranno messi in fuga come i Savoia (che ovviamente hanno fatto ritornare), allora potrò davvero festeggiare una Italia Liberata, una Italia fondata sul diritto.
Prima di allora, in prima linea a combattere.

Un partigiano

sabato 29 gennaio 2011

ANARCHIA - La purezza del pensiero politico


Il solo pensiero politico puro, incontaminato, luminoso perché l'unico non corroso dalla volontà di Potere si incarca nell'Anarchia.
L'anarchico è l'uomo che esprime il più elevato, ineguagliato ed incondizionato amore nei confronti dell'umanità intera.
L'Anarchia non è una delle tante forme di organizzazione politica. L'Anarchia parte certamente dalla politica ma per trascenderla. E l'Utopia costituisce la configurazione concreta della Trascendenza. E lo è in senso universale.
Per questo nella Filosofia Futura, l'Anarchia ricopre un ruolo essenziale.
Richiamando quanto scritto in precedenza su 'Il Libertarismo Contemporaneo' si aggiunga nella prospettiva di una Filosofia Futura che i prodotti immaginativi dell'intelligenza, i concetti a priori, tutta la farragine di lucubrazioni fantastiche considerate verità e sinora imposte come criterio base per il comportamento dell'uomo, stanno subendo da moltissimo tempo, per una cerchia ristretta, la sconfitta da parte della ragione e lo scredito da parte della coscienza.
Alberto Re

Io voglio:
Un tetto per ogni famiglia
del pane per ogni bocca
educazione per ogni cuore
luce per ogni intelligenza.
(Bartolomeo Vanzetti)

Riportiamo di seguito il testo di una celebre canzone di Léo Ferré:


GLI ANARCHICI


Non son l'uno per cento ma credetemi esistono
In gran parte spagnoli chi lo sa mai perché
Penseresti che in Spagna proprio non li capiscano
Sono gli anarchici

Han raccolto già tutto
Di insulti e battute
E più hanno gridato
Più hanno ancora fiato
Hanno chiuso nel petto
Un sogno disperato
E le anime corrose
Da idee favolose

Non son l'uno per cento ma credetemi esistono
Figli di troppo poco o di origine oscura
Non li si vede mai che quando fan paura
Sono gli anarchici

Mille volte son morti
Come è indifferente
Con l'amore nel pugno
Per troppo o per niente
Han gettato testardi
La vita alla malora
Ma hanno tanto colpito
Che colpiranno ancora

Non son l'uno per cento ma credetemi esistono
e se dai calci in culo c'è da incominciare
Chi è che scende per strada non lo dimenticare
Sono gli anarchici

Hanno bandiere nere
Sulla loro Speranza
E la malinconia
Per compagna di danza
Coltelli per tagliare
Il pane dell'Amicizia
E del sangue pulito
Per lavar la sporcizia

Non son l'uno per cento ma credetemi esistono
Stretti l'uno con l'altro e se in loro non credi
Li puoi sbattere in terra ma sono sempre in piedi

venerdì 28 gennaio 2011

LA BELLEZZA E' DONNA (3)

L'Oltre è la Gioia Eterna, la Gloria trionfante. Per coloro che sanno udire, l'Oltre parla già in questo presente, in questo 'esserci' su di una Terra isolata dal Destino della Verità. Dice che l'isolamento della Terra vuole l'esserci mortale e così il dolore, l'angoscia e la violenza che abitano il Tempo.
Ma questo dire è dire che l'errore è la morte, semplicemente perché la morte non esiste.
Per coloro che sanno vedere, l'oltre mostra segni evidenti di ciò che è la verità.
Uno di questi segni l'abbiamo scoperto nella bellezza della donna. Eppure la bellezza della donna vive sulla stessa terra violentata dal nichilismo. Certo vi vive, ma vi vive nella intelligenza dell'Oltre. Se parliamo della bellezza della donna e non della bellezza della natura è proprio a causa della intelligenza che la natura non possiede. Bellezza intelligente, dunque bellezza della donna.
Ma perché nella bellezza della donna individuiamo il segno dell'oltre? Rispondiamo, interrogando.
Che c'entra la bellezza della donna con la volontà di potenza della Tecnica?
Che c'entra la bellezza della donna con la fede nichilista dominante?
Che c'entra la bellezza della donna con la violenza e l'angoscia che avvolgono il mondo?
Che c'entra la bellezza della donna con il Potere, con l'idolatria del Denaro?
Che c'entra la bellezza della donna con la soffocata disperazione di una umanità ridotta a schiavitù dal 'libero mercato'?
alberto re

BONHEUR-VIVRE di Matisse

giovedì 27 gennaio 2011

LA BELLEZZA E' DONNA (2)

Sono celibe e questo è un privilegio. Perché posso amare, come amo, tutte le donne. Non ho ragioni di Stato (leggesi matrimonio e famiglia) che mi incatenino. Amo liberamente e liberamente giaccio con migliaia e migliaia di donne. Nessun libertino mi può eguagliare. In verità con ho nulla da spartire con libertini e dongiovanni, tutti schiavi di Eros. Questo Dio che dà la vita e promette la morte (thanatos) io l'ho sconfitto, da sempre. Da sempre sono oltre Eros, ragione per la quale godo di un amplesso universale, ove la mia virilità è eternamente ed estaticamente accolta dalla femminilità. Quell'accoglimento che è fonte inesauribile di piacere ed insieme è il suo superamento.
Perché solo così l'estasi dei sensi non produce sviamento, deiezione, alienazione del sé. Perché solo così all'estasi dei sensi è impedito il nascondimento della bellezza, compagna inseparabile della verità. Ed ecco che il piacere dei sensi è unito alla meraviglia per la bellezza della donna, ad uno stupore che non si riesce a descrivere. L'indicibile conservato nel mistero della donna si ritrova, non a caso, nella impossibilità a trovare nel linguaggio le parole atte a descrivere lo stato di un necessario oltrepassamento di sé. Tuttavia questo indicibile è pur sempre segno che, attraverso la bellezza muliebre, indica la ineluttabilità dell'Oltre. (segue)

Alberto Re

MONALISA

mercoledì 26 gennaio 2011

LA BELLEZZA E' DONNA

La bellezza è donna, come la sapienza. Ma se la sapienza (nel senso greco di episteme, ovvero di conoscenza incontrovertibile) ottiene oggi con la scienza e la tecnica il contrario di quel che si proponeva al suo nascere, a mantenere ancora salva la terra dal nichilismo estremo vi è solo la bellezza muliebre. E' questa luce, è solo questa luce che dà una speranza non illusoria. La speranza che il destino voglia svelare la verità dell'essere e con la verità, la gioia eterna.
La bellezza della donna è il segno che tutto ciò avverrà necessariamente.

Alberto Re




BRIGITTE BARDOT

martedì 25 gennaio 2011

L'ARTE E' - Michelangelo

PIETA'

E' POSSIBILE LA FELICITA' ?


La domanda che ci siamo posti nel titolo è antica quanto l’uomo, anche se si presenta viva nella sua coscienza solo a partire dalla nascita della filosofia. Sono quel genere di domande alle quali la ragione umana non ha mai saputo dare risposte definitive e soddisfacenti. Anche se nel nostro caso, per dire la verità, delle risposte sono state date e tutte o quasi sono state di segno negativo. La loro traduzione sintetica è che ‘La felicità sulla terra non è possibile’. Tanto che, come diceva il mitico Sileno (riportiamo a memoria), ‘Meglio sarebbe non essere mai nati, ma dal momento che si è nati la cosa preferibile è la morte’. Sui rari momenti di felicità (quando ci sono) prevale di gran lunga il tempo del dolore e dell’angoscia. Se dolore ed angoscia non sono per lo più avvertiti sensibilmente nella carne e nello spirito dell’uomo, è solo perché questi vive in una specie di condizione ipnotica, trattenendosi in quella caverna di cui parla Platone e che rappresenta il mondo della illusione.
La realtà che si presenta a chi riesca ad uscire dalla caverna non è però quella della perfezione delle idee e dell’eternità del tutto di cui parla sempre Platone. L’uomo storico e vivente, anche quando esce dal mondo delle illusioni, non vede nessun Dio che lo protegga da quel divenire delle cose, dal loro venire dal nulla e ritornarvi, che costituisce la sua sensazione concreta e primaria. Il voler vedere un Dio che salva dall’annientamento delle cose ed in primo luogo dall’annientamento di sé stessi ha costituito e costituisce certo l’atteggiamento predominante delle masse popolari che si configura nell’adesione alla forma escatologica delle religioni, ma tale atteggiamento è pur sempre un ritorno a quel mondo illusorio dal quale si vorrebbe fuggire. La verità non corrisponde a valori quantitativi o alla maggioranza numerica di qualsivoglia opinione. La verità dice oggi come ieri che l’uomo è solo sulla terra ed ognuno è destinato a sopportare nella solitudine il peso della propria finitezza mortale. Quello che neanche il più profondo degli inconsci può nascondere è, come si accennava, la sensazione angosciosa che scaturisce dal vedere la dominazione dell’essere da parte del divenire delle cose. L’impossibilità di com-prendere l’ essere (che, con Parmenide, è l’unica realtà com-prendente la totalità ed eternità della infinita molteplicità delle cose) da parte dell’esserci (esistenza), produce di converso la fede nella infinita possibilità ed imprevedibilità dell’accadimento di ogni evento, cosa, fatto. In una parola, di ogni ente. Abbiamo qui parlato di fede, non di verità. Ma la distanza tra fede e verità è la stessa distanza (opposizione) che sta tra la verità e l’errore. Se la constatazione del divenire è una fede, allora è anche un errore.
Eppure in tutta la storia della filosofia non è stata neppure sfiorata la eventualità che ciò che si presenta come l’evidenza suprema (il divenire delle cose) possa essere messo in discussione. Tanto meno è messo in discussione oggi, nel tempo in cui il mondo è dominato da quell’apparato scientifico e tecnologico che sul fondamento del divenire trova la sua ragione d’essere.
La tecnica si propone con tutta la sua straordinaria ed efficace volontà di potenza di riuscire là dove mito, filosofia e religione hanno fallito: eliminare dal cuore dell’uomo il terrore nei confronti del nulla e l’angoscia che è il sentimento prevalente del suo ‘esserci’ nel mondo. La tecnica riuscirà pure a percorrere interamente la via che condurrà al paradiso sulla terra : questa è comunque la via che nel momento storico che viviamo sta percorrendo l’umanità, non importa se ne sia o meno consapevole. Se dunque il termine del viaggio è il Paradiso, sarebbe lecito supporre che durante il cammino progressivamente decrescano angoscia e paure, e crescano felicità e serenità.
Ma quel che avviene è, senza ombra di dubbio, l’esatto contrario. Già rispetto all’uomo del medioevo che qualche certezza l’aveva (a cominciare da quella di ritenersi al centro dell’universo, il cosiddetto antropocentrismo), nell’uomo contemporaneo cresce giorno dopo giorno l’incertezza per il futuro, accompagnata dai dubbi sul senso della vita che lacerano il suo presente.
Aspettando il Paradiso, l’uomo diventa sempre più una cosa tra le cose in mano alla capacità manipolatrice e trasformatrice della tecnica. L’alienazione di cui parla Marx, il caos annunciato da Nieztsche sono poca cosa rispetto alla progressiva disgregazione di qualsiasi senso che si possa dare al concetto di ‘umano’.
Poiché la scienza non si riconosce nella ricerca della verità (dovendo questa possedere quel carattere definitivo ed incontrovertibile che si porrebbe in netto contrasto con la imprevedibilità del divenire, che rappresenta invece, come direbbe Aristotele, il sostrato su cui poggia la possibilità stessa della scienza), lo spazio che viene aperto è quello della opinabilità che segue il carattere specifico e frazionato nel quale si dividono i campi della indagine scientifica. Così se per l’empirismo l’uomo è il risultato del suo agire, per la psicoanalisi è la conseguenza del proprio inconscio.
Ed ancora per la biologia è la compiuta unità originata dalla particolarità del proprio DNA, a differenza della sociologia per la quale l’uomo è fondamentalmente funzione dell’ambiente in cui si trova a vivere. Si potrebbe continuare ancora a lungo, ma ritengo che questi esempi possano essere sufficienti a mostrare come oggi non esista per il concetto di ‘uomo’ una definizione univoca e valida per tutti.
Ciò che può apparire come una digressione rispetto alla domanda posta nel titolo, ha invece una sua giustificazione precisa. In quanto il soggetto (o l’oggetto) rispetto al quale poniamo l’interrogativo se possa o meno essere felice risulta indefinito e dai contorni confusi, allora la risposta non può essere data. Prima di ogni altra considerazione, la possibilità che un ente (nel nostro caso, l’uomo) possa essere una cosa piuttosto di un’altra, possa ricevere o meno un attributo o una qualità, dipende dalla condizione a-priori che quell’ente sia in grado di riconoscere la propria identità e natura (se è un soggetto) o di un certo ente si sia in grado di riconoscere in via definitiva e certa la propria sostanza e funzionalità (se è un oggetto).
Poiché la nostra indagine si riferisce ad un soggetto, è necessario che quel soggetto abbia piena coscienza di sé, si sappia come un ente particolare rispetto ad ogni altro ente che incontra nel mondo. La particolarità è accertata nel momento in cui l’ente particolare (l’uomo) acquisisce la consapevolezza di pensare se stesso, di pensare il pensiero. E, a questo punto, di porre il pensiero al di fuori e al di là del meccanismo razionalista imperante nel metodo della scienza.
Così facendo si mette in grado di recuperare l’antica posizione che in tempi lontanissimi lo aveva messo davanti al bivio dal quale si dipartivano due vie. La prima indicava lo stare dell’eternità dell’essere e del legame indissolubile di ogni cosa con l’essere stesso: la via, che per essere la via della verità, è anche quella della felicità e della gioia.
La seconda, sulla quale è caduta la scelta dell’essere umano, è la via della fede nel divenire: la via dell’errore e quindi del dolore, dell’angoscia, della infelicità. Che è poi la via che segna il tragitto che avrebbe portato alla civiltà della tecnica, ovvero alla dimensione attualmente esistente, e che con ogni probabilità porterà ad un Paradiso che non poggiando su criteri di verità bensì ipotetici, avrà in sé sempre la possibilità di trasformarsi in Inferno. Per questo motivo è ancora di là da venire l’angoscia estrema, insopportabile.
Ma il ritorno al punto di partenza dal quale si dipartono le due vie sopracitate non è un qualcosa che dipenda dalla volontà dell’uomo per la semplice ma sostanziale ragione che la volontà è uno dei modi, forse quello prevalente, in cui si manifesta la fede nel divenire, e quindi è l’errore originario da cui si generano la follia e il dolore.
Neppure la ragione, anche quando sia liberata dalle catene di un razionalismo calcolante e matematico che è proprio di tutte le scienze, può decidere per la via della verità e della gioia. Perché, daccapo, il decidere, la cui radice semantica è la stessa dell’uccidere, è il movimento attraverso il quale le cose vengono separate e così separate si tengono isolate le une dalle altre. Un processo, anche questo, che appartiene alla fede di un mondo diveniente.
Il momento storico che vive l’umanità non lascia vie di scampo: è destino che il dolore, l’angoscia, l’infelicità, la follia accompagnino ancora per molto tempo l’esserci dell’uomo nel mondo. Solo quando il tempo sarà avvertito come parte unita all’eterno, come lo spazio entro il quale l’eterno avrà la sua piena manifestazione, solo allora l’essere per la morte in cui consiste la vita assumerà un significato radicalmente diverso. Un significato che non parlerà con le parole del linguaggio attuale, anch’esso inserito in una dimensione diveniente (si vedano al riguardo le tesi della linguistica contemporanea), ma parlerà con le parole che sapranno tradurre un pensiero legato strettamente al senso veritiero del Destino.
E’ attraverso la comprensione del Destino, della sua Volontà come la sola veramente potente che l’ente che chiamiamo ‘uomo’ saprà del suo ‘esserci’ come necessariamente legato all’essere, nel modo veritiero con cui l’esserci nell’essere è ciò che è votato (destinato) alla gioia eterna. Ciò che è dato all’uomo della storia, all’uomo così come oggi è configurato, è quello che Heidegger chiama ‘oblio’ dell’essere, il suo ‘nascondersi’. Ma ciò che Heidegger e, fatta eccezione per Emanuele Severino, tutta la filosofia contemporanea non contempla, è che all’uomo è data anche la possibilità del rimanere in attesa che si compia quello che il destino vuole che si compia. Questo rimanere in attesa, se non può ottenere la felicità, apre però l’orizzonte entro il quale potrà darsi la comprensione dell’essere, che allora uscirebbe dal proprio nascondimento per mostrarsi come la gioia del tutto.
alberto re

lunedì 24 gennaio 2011

L'ARTE E' - Kandinsky

DIVERSI CERCHI

PARMENIDE - Sulla Natura


Parmènide di Elea (in greco Παρμενίδης; Elea, 515 a.C.450 a.C.) è stato un filosofo greco antico, presocratico. Fu il maggiore esponente della scuola eleatica.

SULLA NATURA
Le cavalle che mi trascinano, tanto lungi, quanto il mio animo lo poteva
desiderare,
mi fecero arrivare, poscia che le dee mi portarono sulla via molto celebrata
che per ogni regione guida l'uomo che sa.
Là fui condotto: là infatti mi portarono i molto saggi corsieri
che trascinano il carro, e le fanciulle mostrarono il cammino.
L'asse nei mozzi mandava un suono sibilante,
tutto in fuoco (perché premuto da due rotanti cerchi
da una parte e dall'altra) allorché si slanciarono
le fanciulle figlie del Sole, lasciate le case della Notte,
a spingere il carro verso la luce, levatisi dal capo i veli.
Là è la porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno,
e un architrave e una soglia di pietra la puntellano:
essa stessa nella sua altezza è riempita da grandi battenti,
di cui la Giustizia, che molto punisce, ha le chiavi che aprono e chiudono.
Le fanciulle allora, rivolgendole discorsi insinuanti,
la convinsero accortamente a togliere per loro la sbarra
velocemente alla porta. La porta spalancandosi
aprì ampiamente il vano dell'intelaiatura, i robusti bronzei
assi facendo girare nei loro incavi uno dopo l'altro:
gli assi fissati con cavicchi e punte. Per di là attraverso la porta
subitamente diressero lungo la carreggiata carro e cavalli.
La dea mi accolse benevolmente, con la mano
la mano destra mi prese e mi rivolse le seguenti parole:
"O giovane, che insieme a immortali guidatrici
giungi alla nostra casa con le cavalle che ti portano,
salute a te! Non è un potere maligno quello che ti ha condotto
per questa via (perché in verità è fuori del cammino degli uomini),
ma un divino comando e la giustizia. Bisogna che tu impari a conoscere ogni
cosa,
sia l'animo inconcusso della ben rotonda Verità
sia le opinioni dei mortali, nelle quali non risiede legittima credibilità.
Ma tuttavia anche questo apprenderai, come le apparenze
bisognava giudicasse che fossero chi in tutti i sensi tutto indaghi.
Orbene io ti dirò e tu ascolta attentamente le mie parole,
quali vie di ricerca sono le sole pensabili;
l'una che è e che non è possibile che non sia,
è il sentiero della Persuasione (giacchè questa tiene dietro alla Verità);
l'altra che non è e che non è possibile che non sia,
questa io ti dichiaro che è un sentiero del tutto inindagabile:
perché il non essere né lo puoi pensare (non è infatti possibile),
né lo puoi esprimere,
.......infatti il pensare implica l'esistere [del pensato]. (3)
Queste cose, benché lontane, vedile col pensiero saldamente presenti;
non infatti distaccherai l'essere dalla sua connessione con l'essere
né quando sia disgregato in ogni senso completamente con cura sistematica
né quando sia ricomposto.
...................... per me è lo stesso, (4)
da qualsiasi parte cominci: là infatti di nuovo farò ritorno.
II
(5) Bisogna che il dire e il pensare sia l'essere: è dato infatti essere,
mentre nulla non è; che è quanto ti ho costretto ad ammettere.
Da questa prima via di ricerca infatti ti allontano,
eppoi inoltre da quella per la quale mortali che nulla sanno
vanno errando, gente dalla doppia testa. Perché è l'incapacità che nel loro
petto dirige l'errante mente; ed essi vengono trascinati
insieme sordi e ciechi, istupiditi, gente che non sa decidersi,
da cui l'essere e il non essere sono ritenuti identici
e non identici, per cui di tutte le cose reversibile è il cammino.
Perché non mai questo può venire imposto, che le cose che non sono siano:
(6) ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero.
(7) nè l'abitudine nata dalle molteplici esperienze ti costringa lungo questa
via,
a usare l'occhio che non vede e l'udito che rimbomba di suoni illusori
e la lingua, ma giudica col raziocinio la pugnace disamina
che io ti espongo. Non resta ormai che pronunciarsi sulla via
che dice che è. Lungo questa sono indizi
in gran numero. Essendo ingenerato è anche imperituro,
tutt'intero, unico, immobile e senza fine.
Non mai era e sarà, perché è ora tutt'insieme,
uno, continuo. Difatti quale origine gli vuoi cercare?
Come e donde il suo nascere? Dal non essere non ti permetterò né
di dirlo né di pensarlo. Infatti non si può né dire né pensare
ciò che non è. E quand'anche, quale necessità può avere spinto
lui che comincia dal nulla, a nascere dopo o prima?
Di modo che è necessario o che sia del tutto o che non sia per nulla.
Giammai poi la forza della convinzione verace concederà che dall'essere
alcunché altro da lui nasca. Perciò né nascere
né perire gli ha permesso la giustizia disciogliendo i legami,
ma lo tien fermo. La cosa va giudicata in questi termini;
è o non è. Si è giudicato dunque, come di necessità,
di lasciare andare l'una delle due vie come impensabile e inesprimibile (infatti
non è
la via vera) e che l'altra invece esiste ed è la via reale.
L'essere come potrebbe esisitere nel futuro? In che modo mai sarebbe venuto
all'esistenza?
Se fosse venuto all'esistenza non è e neppure se è per essere nel futuro.
In tal modo il nascere è spento e non c'è traccia del perire.
Neppure è divisibile, perché è tutto quanto uguale.
Né vi è in alcuna parte un di più di essere che possa impedirne la contiguità,
né un di meno, ma è tutto pieno di essere.
III
Per cui è tutto contiguo: difatti l'essere è a contatto con l'essere.
Ma immobile nel limite di possenti legami
sta senza conoscere né principio né fine, dal momento che nascere e perire
sono stati risospinti ben lungi e li ha scacciati la convinzione verace.
E rimanendo identico nell'identico stato, sta in se stesso
e così rimane lì immobile; infatti la dominatrice Necessità
lo tiene nelle strettoie del limite che tutto intorno lo cinge;
perché bisogna che l'essere non sia incompiuto:
è infatti non manchevole: se lo fosse mancherebbe di tutto.
E' la stessa cosa pensare e pensare che è:
perché senza l'essere, in ciò che è detto,
non troverai il pensare: null'altro infatti è o sarà
eccetto l'essere, appunto perché la Moira lo forza
ad essere tutto intiero e immobile. Perciò saranno tutte soltanto parole,
quanto i mortali hanno stabilito, convinti che fosse vero:
nascere e perire, essere e non essere,
cambiamento di luogo e mutazione del brillante colore.
Ma poiché vi è un limite estremo, è compiuto
da ogni lato, simile alla massa di ben rotonda sfera
di uguale forza dal centro in tutte le direzioni;
che egli infatti non sia né un pò più grande né un pò più debole qui o là è
necessario.
Né infatti è possibile un non essere che gli impedisca di congiungersi
al suo simile, né c'è la possibilità che l'essere sia dell'essere
qui più là meno, perché è del tutto inviolabile.
Dal momento che è per ogni lato uguale, preme ugualmente nei limiti.
Con ciò interrompo il mio discorso degno di fede e i miei pensieri
intorno alla verità; da questo punto le opinioni dei mortali impara
a conoscere, ascoltando l'ingannevole andamento delle mie parole.
Perché i mortali furono del parere di nominare due forme,
una delle quali non dovevano - e in questo sono andati errati -;
ne contrapposero gli aspetti e vi applicarono note
reciprocamente distinte: da un lato il fuoco etereo
che è dolce, leggerissimo, del tutto identico a se stesso,
ma non identico all'altro, e inoltre anche l'altro [lo posero] per sé
con caratteristiche opposte, [cioé] la notte senza luce, di aspetto denso e
pesante.
Quest'ordinamento cosmico, appaente come esso è, io te lo espongo compiutamente,
cosicché non mai assolutamente qualche opinione dei mortali potrà superarti.
IV
(8) Ma dal momento che tutto è denominato luce e tenebra
e queste, secondo le loro attitudini sono applicate a questo e a quello,
tutto è pieno insieme di luce e di tenebra invisibile,
pari l'una e l'altra, perché né con l'una né con l'altra c'è il nulla.
(9) Conoscerai l'eterea natura e quanti astri sono
nell'etere e della pura e tersa lampada
del sole l'opera distruttrice, e di dove derivarono;
e apprenderai l'errabondo agire della luna dal tondo occhio
e la sua natura; conoscerai inoltre di dove la volta celeste che tiutto
circuisce
nacque e come la Necessità guidandola la costrinse
a osservare i limiti degli astri.
(10) .......... come la terra e il sole e la luna
e l'etere che tutto abbraccia e la celeste via lattea e l'olimpo
estremo e la calda forza degli astri si mossero al nascere
(11) Giacché le più strette vennero riempite di non mescolato fuoco,
le altre dopo di queste di tenebra e vi s'insinua una porzione di fuoco;
in mezzo a queste è la dea che tutto dirige;
per ogni dove infatti essa guida la dolorosa nascita e l'unione
spingendo la femmina ad unirsi con maschio e di nuovo all'inverso
il maschio ad unirsi con la femmina.
(12) Primo di tutti gli dei essa creò l'Amore.
(13) luce che brilla di notte di uno splendore non suo e si aggira intorno alla
terra,
(14) sempre riguardando verso i raggi del sole.
(15) Quale infatti è la mescolanza che ciascuno ha degli organi molto erranti,
tale mentalità si ritrova negli uomini; perché è sempre lo stesso
ciò che appunto pensa negli uomini, la costituzionalità degli organi:
in tutti e in ognuno; il di più infatti è pensiero.