sabato 19 marzo 2011

COMPRENSIONE DELL'ESSERE - 4


IL PREVALERE DELL'ERRORE

Che una cosa appaia o non appaia è volontà del Destino. La sola Volontà che ottiene ciò che vuole.
E ciò che vuole è innanzitutto lo stare dell'Essere: lo stare che per essere tale esclude con verità (ovvero con la propria incontrovertibile e non smentibile realtà) la possibilità del divenire delle cose, misurandone l'estrema follia quando si pensi che tale possibilità esista. Di più sia l'evidenza indiscussa. Da parte dell'esistente non esiste un suo provenire dal nulla, il trattenersi limitato e provvisorio nel tempo ed infine il suo ritornare nel nulla. Nascita e morte, così come significati dal linguaggio prodotto dal nichilismo, non esistono. La stessa esistenza, in quanto fuori (ex) dallo stare dell'essere (sistere) non è l'esistenza testimoniata dalla verità dell'essere. Anche ciò che esiste, per il nichilismo ossia per ogni forma di cultura sin qui prodotta dall'uomo, esiste come separato dall'essere. Nel sottosuolo del nichilismo, l'esistenza non è. Ma dal momento che il nichilismo non è in grado di riconoscere se stesso perché dovrebbe riconoscersi come pura ed estrema follia, deve pensare una tale proposizione come un non senso e quindi rifiutarla sotto l'aspetto della razionalità.
Tuttavia quanto cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. E così la follia si maschera dietro 'il velo di Maia' delle filosofie orientali secondo le quali l'esistenza è una illusione e se non è illusione non è neppure vita vera perché la vita vera viene dopo questa che viviamo sulla Terra (Cristianesimo).
Vi è una ragione ed una sola per spiegare la nascita delle religioni: la necessità di mascherare la Follia e l'Errore prodotti dal Nichilismo (il nichilismo, per quanto debole e sfumato, preesiste all'avvento della Filosofia: la grandezza della Filosofia è quella di aver portato alla luce ciò che, la fede nel divenire, era stato sin lì nascosto o travisato) sino a presentare l'una e l'altro nel loro opposto che è insieme la loro negazione: la Follia diventa Ragione Suprema e l'Errore diventa Verità.
Proprio là dove si predica la non-violenza, la pace, la fratellanza, etc vi è la radice più salda da cui trova sostegno la violenza .
Perché la violenza scaturisce là dove vi è l'errore e diventa incontenibile quando, con volontà perversa, l'errore è presentato come verità.
Si deve allora dire che le Religioni, in primis le Religioni monoteiste, sono la forma più esplicita e più grave della perversione umana.
Vero che anche la Metafisica ha avuto la sua parte nel pervertire la ragione umana, ma il suo percorso è sempre stato contraddistinto dalla prudenza dei filosofi nell'esporre il proprio pensiero. Ogni teoria filosofica non è mai stata data come verità assoluta, tanto chè in ognuna vi si trovano elementi di ponderazione, di interrogazione, di sospensione dal giudizio, etc...che inducono il lettore ad esercitare quello che Cartesio chiamerà 'dubbio metodico'.
A nessun filosofo, insomma, è mai venuto in mente di presentarsi come figlio di dio...
Siamo giocoforza costretti ad usare un linguaggio fortemente contaminato dalla fede nel 'divenire'. Per dar conto dell'essere occorre fare i conti con un linguaggio che non è tale da dare una ‘ragione’ comprensibile alla realtà ed identità dell’essere. Il linguaggio umano si è in vero formato unicamente in relazione a ciò che appare, al manifesto di cui si ha esperienza. La possibilità di una comunicazione in cui gli interlocutori comprendano allo stesso modo il significato della parola detta o scritta è data ove la parola si riferisca ad un qualcosa di semplice e di concretamente sensibile. Se dico ‘neve’ posso con certezza aspettarmi che il mio interlocutore comprenda il significato del termine ‘neve’ allo stesso modo con cui lo comprendo io. Ma se parlo, ad esempio, di ‘anima’ non posso aspettarmi la stessa comprensione che io ho del significato di ‘anima’ da parte del mio interlocutore. Quando ci si riferisce a dei termini astratti stabiliamo una comunicazione in cui riveste una grande rilevanza il carattere della interpretazione soggettiva, non venendo in questo caso in aiuto l’oggettività concreta della cosa capace di essere percepita attraverso i sensi.
Non a caso quella sul linguaggio è diventata una componente prevalente nello studio della filosofia contemporanea. E l’ermeneutica, da originario studio dei testi sacri, si è estesa sino a comprendere l’analisi dell’intera struttura semantica del linguaggio.
Come si può ben intuire, i problemi che si pongono sono estremamente complessi.
Va da sé che il linguaggio parlato dalla scienza non sia idoneo a parlare dell’essere. Il linguaggio che accompagna la ragione nella comprensione del suo percorso scientifico non è infatti lo stesso linguaggio in grado di accompagnare la ragione nella comprensione dell’essere.
In altri termini, il linguaggio che parla del divenire delle cose possiede una struttura semiotica e semantica altra dalla struttura linguistica atta a significare dell’essere.
E, come l’essere, avente il segno della fermezza ed immutabilità.
Questo linguaggio, che non possiamo definire come nuovo perché da sempre conservato nell’eternità dell’essere, comincia ad apparire. Un suo accenno è già nelle parole che testimoniano di un problema ignorato da ogni tipo di scienza e che abbiamo posto nei termini di ‘una comprensione dell’essere’.
Un compito che non può essere affidato che alla ragione. La quale, allo stato attuale del suo sviluppo e della sua conformazione, non è però in grado di assolvere. Poiché oggi la ragione parla con le parole della scienza e della tecnica, ogni tentativo di affrontare il tema finisce inevitabilmente per alimentare il contrasto con l’esperienza e con la struttura interna del linguaggio stesso. Che essendo direttamente in relazione con l’apparente mutare degli enti esperiti, spiega già il contrasto che attualmente una razionalità diversa da quella scientifica avrebbe nel suo rapporto con l’esperienza e la realtà.
Il contrasto tra ragione ed esperienza di cui si faceva cenno all’inizio della trattazione non ha bisogno dunque di ulteriore spiegazione, stante l’analogia che tale contrasto ha rispetto alla struttura del linguaggio: tema sul quale riteniamo di avere sufficiente riferito.
Il modo in cui oggi come ieri è accolta la realtà attraverso la percezione dei sensi (il modo dell’esperienza) e la sua traduzione linguistica (il modo prima della metafisica e poi dell’indagine scientifica) non è il modo attraverso il quale può essere accolta la realtà dell’essere.
Che per la metafisica certamente costituisce lo sfondo necessario ed immutabile che permette il divenire degli enti, ma secondo un processo in cui viene marcata la differenza ontologica tra l’essere e l’ente che appare. L’ultimo tratto del percorso della metafisica parla così con Heidegger di un ‘oblio’ dell’essere, che è una maniera elegante di mostrare l’alterità dell’essere rispetto all’ente. Con il risultato finale di una vita dell’uomo come vita alienata, deviata dal retto percorso che già la Dea della Giustizia aveva indicato a Parmenide come l’unico percorribile ogni caso per la filosofia, anche quando non vuol essere metafisica, l’essere continua a rimanere una realtà ineludibile e pertanto punto centrale della propria ricerca.
Contrariamente a quanto accade nella scienza, la quale, al fine di permettere il maggior dispiegamento della propria volontà di potenza, decide di ignorare il problema. Che vi sia o meno un essere immutabile ed eterno le rimane indifferente.
Di più, la possibilità che esista un essere siffatto sarebbe di ostacolo per la propria indagine conoscitiva, che esige invece una disponibilità e divisibilità infinita delle cose. Una disponibilità e divisibilità della cose che costituisce anzi la condizione stessa della possibilità dell’esistenza di una scienza.
Quale che sia il punto di partenza o l’angolo di visione, la conclusione è sostanzialmente la stessa: che l’essere si sottrae ad ogni definizione compiuta ed il significato che gli si vuole attribuire appare incerto ed instabile.
La causa della effettiva inconoscibilità dell’essere non è data, a parere nostro, dai limiti della ragione umana (secondo quanto rilevato da Kant), ma, come abbiamo sin qui cercato di dimostrare, da un particolare uso della ragione.
Quel particolare uso che scaturisce quando sulla ragione prevale la forza della volontà. Al di là e prima di ogni rapporto con l’esperienza e con la struttura linguistica che ne deriva, sta il rapporto con ciò che determina prevalentemente l’ego ed il mondo che sta davanti ad un ego così determinato: la volontà, che è sempre volontà di potenza.
Alberto Re

lunedì 14 marzo 2011

COMPRENSIONE DELL'ESSERE - 3


L'IMPOSSIBILITA' DEL DIVENIRE

La filosofia sin qui non ha visto come il pensare l’annientamento di ciò che non appare pregiudichi la possibilità stessa dell’essere dell’essere. Nel cui seno non può verificarsi l’annientamento di nessuna cosa, neppure della più piccola ed insignificante, e di nessuno spazio temporale, neppure della infinitesimale parte di un attimo, se non a scapito dell’annientamento dell’essere stesso.
Per permettere ciò che erroneamente è visto come il divenire (ovvero l’oscillazione di ogni cosa dal nulla all’essere e dall’essere al nulla) occorre che il tutto conservi la propria integrità, che l’uno rimanga indivisibile. Per la fede nel divenire la parte è invece separata dal tutto e lo spazio temporale è separato dal tempo eterno.
Cosicché avremmo l’assurdo di un tutto mancante delle sue parti e di un tempo eterno impossibilitato a manifestarsi nei necessari limiti temporali della mondanità.
Data per evidente ed indiscutibile la premessa di un mondo diveniente, una premessa che andrebbe invece discussa perché il divenire del mondo è tutt’altro che evidente, è perfettamente comprensibile come le conclusioni che dovrebbero condurre ad una definizione dell’essere portino a strade senza uscita.
Per una ratio calcolante così come per la percezione sensoriale costituisce certamente un problema condurre la molteplicità delle cose e delle forme ad una unicità sostanziale. Per la metafisica basata sulla razionalità calcolante e per l’empirismo votato fiduciosamente alla capacità conoscitiva dei sensi, la diversità delle cose e degli enti che appaiono nel mondo sono difficilmente riconducibili alla identità. Il tentativo più alto di giungere alla identità dei diversi è dato dalla dialettica hegeliana , la quale tuttavia non si compie mai in via definitiva, ripetendosi all’infinito il movimento che vuole l’ assunzione dell’altro da sé nello stesso sé per superarlo in un superiore e nuovo sé. Proprio perché anche la dialettica di Hegel è partecipe della dimensione diveniente, non si dà una circolarità compiuta, nella quale si riconosca una volta per sempre l’unità del molteplice.
Secondo una armonia ed una gioia del tutto che sono iscritte nella verità dell’essere.
Ma che la cultura dominante, sin dai suoi esordi, non può scorgere in quanto deviata irrimediabilmente da un retto percorso logico in cui prevalga una razionalità che non sia quella scientifica. Una razionalità cioè che non si basi su di un processo ipotetico e falsificabile, ma che proceda avendo in sé come fine la ricerca della verità, una ed incontrovertibile.
La discussione che siamo andati sin qui sviluppando non ha portato elementi del tutto nuovi rispetto a quelli già noti ai precursori della filosofia: ha tuttavia fatto proprie quelle analisi che conducono al punto fermo di una inconciliabilità tra l’essere ed il divenire. Che costituisce piuttosto una scelta di campo precisa che segna un distacco rispetto alla maggior parte delle teorie formatesi lungo tutto il corso della storia della filosofia.
La nascita della filosofia coincide con l'evocazione del nulla quale concreta opposizione all'essere.
Il nulla non è più soltanto il positivo significare di sé ma è quel 'solido nulla' di cui parla Leopardi (il primo pensatore capace di scandagliare l'abisso del nichilismo sino a vederne le radici) .
Ma come è stato possibile considerare ciò che non appare come il nulla? La pre-esistenza di ciò che appare limitatamente nel tempo come il provenire dal nulla e la sua successiva esistenza come il ritornare nel nulla? L'esperienza non può testimoniare alcunché rispetto al passato di ciò che sopraggiunge e allo stesso modo del futuro che lo attende quando non è più presente allo sguardo di chi si trattiene nell'apparire.
Tanto basterebbe per impedire di affermare che il passato ed il futuro di ciò che appare siano il nulla, magari nella forma edulcorata del non essere. La distinzione tra nulla assoluto (nihil absolutum) e non essere la dice lunga sui dubbi che tormentavano grandi pensatori come Platone ed Aristotele e tutti coloro che li hanno preceduti e seguiti.
Una differenza che avrebbe dovuto evitare l'errore del nichilismo: per quanto sottile e ben argomentata, tale differenza ha tuttavia la sembianza di un escamotage che non cambia la realtà delle cose.
La storia della filosofia è la storia del nichilismo e la distanza tra chi vede Dio e chi vede il Nulla, tra i naturalisti e gli spiritualisti, tra i nominalisti ed i realisti, tra i positivisti e gli idealisti è più legata alla forma che alla sostanza. Tutte teorie la cui distanza o opposizione è solo apparente, venendo meno rispetto alla stretta comunanza che le legano alla fede nel divenire, ovvero all'essere, tutte, di segno nichilista.
L'essere è la Totalità di ogni cosa, dell'apparire e del non apparire, ed in sé comprende come negato il nulla (la cui valenza sta unicamente nel suo positivo significare, ovvero nella necessità del suo nome perché il linguaggio possa dire dell'unica realtà dell'essere). In tal senso si può affermare, con Heidegger, che 'il linguaggio è la casa dell'essere'. Ma se per Heidegger l'essere è nella identità con l'apparire, fuori dal nichilismo, l'apparire è anche l'apparire della necessità del non apparire. Si vuol dire che il qualcosa di determinato in cui consiste sempre l'apparire esige una realtà più ampia della propria determinazione, una origine che la trascende e proprio perché trascendente, non appare.
Ma quando si pensa che il non apparire sia il nulla o il non-essere è quando non si riesce a comprendere come il non- apparire e l'apparire siano strettamente uniti nella totalità dell'Essere, ed il ciò che è (l'esistente) sia in stretta relazione con ciò che lo trascende, ovvero con tutto ciò che pur non apparendo non si può dire che non esista. Il fatto di non vedere una cosa non consente di affermare che questa cosa non esista.
Il nichilismo non riesce, come appena accennato, a comprendere come l'esistenza della singola cosa, dell'ente particolare sia possibile in quanto il proprio limite temporale e spaziale è il risultato del trascendentale. Il trascendentale (nome proprio dell'Essere) è l'illimitato, l'infinito. L'Eterno. L'esistenza di una cosa (il suo sopraggiungere nel cerchio dell'apparire) non inizia o termina con la sua presenza, in quanto essa è possibile per lo stare di ciò che la precede e la segue. E questo stare impedisce di concepire il prima ed il dopo di una presenza come assenza (ed in quanto tale come non essere o nulla).
Ma non potendo vedere il tutto (contraddizione C individuata da Emanuele Severino), non possiamo vedere la costituzione trascendentale che determina il limite della presenza temporale dell'ente.
Alberto Re

sabato 5 marzo 2011

COMPRENSIONE DELL'ESSERE - 2

L'ESSERE (2a parte)

L’evidenza dell’apparire delle cose, degli enti, sarebbe in qualche modo negata. Se non proprio semplici nomi, come sosteneva Parmenide, ciò che appare verrebbe posto in una relazione problematica con l’essere concreto, con la cosa in sé.
Se è vero, come si diceva poc’anzi, che ogni possibile conoscenza non può prescindere dalla percezione sensoriale del qualcosa che è, è però altrettanto vero che i sensi sono facilmente inclini all’errore; sono, per loro intrinseca natura, fallaci.
E dunque, se non si può fare cieco affidamento su di una assoluta autonomia della ragione, neppure si deve presumere una infallibilità dei sensi secondo il modo di un empirismo ingenuo. Le conclusioni raggiunte dall’empirismo puro fanno il paio con quelle raggiunte da una metafisica misticheggiante. Dove l’essere è compreso come uno sfondo irreale su di un palcoscenico reale (la vita) che vede incessantemente ora l’apparire, ora lo sparire, della infinita molteplicità di cose ed eventi che costituiscono il mondo. Questo mondo che a sua volta può essere considerato empiricamente come la sola realtà vera o può essere considerato misticamente come qualcosa di illusorio, avvolto com’è da un velo (il velo di Maia) che lo separerebbe dalla sostanza concreta dell’essere. Lo sfondo che costituisce la possibilità di ogni apparire continuerebbe in entrambi i casi a permanere in un alone impalpabile ed etereo.
Siamo in generale in presenza di una fede in una dimensione del reale eternamente diveniente. Una fede in cui non è avvertita la contraddizione di un eterno che rinuncerebbe alla sua natura di sostanza immutabile per mutare nelle infinite forme del divenire e di un divenire che condurrebbe ad una fissità eterna del mutamento.
Questa contraddizione che Nietzsche cercò vanamente di risolvere con la teoria dell’eterno ritorno ricorre costantemente alla base della cultura, di ogni tipo di cultura, dalla sua origine sino ai giorni nostri. Il linguaggio, che ne è l’espressione, ne rimane profondamente contaminato cosicché le definizioni dei concetti fondamentali per la conoscenza appaiono lontani dal cogliere il vero.
Termini come uomo, vita, coscienza, anima, mondo, storia, pace, guerra, bene, male etc…etc… assumono significati che non corrispondono alla verità dell’essere.
Forse anche per questo Parmenide considerava le cose del mondo come semplici nomi senza nessuna realtà. Fu per salvare il mondo dall’annientamento a cui sarebbe andato incontro tenendo per buona la tesi di Parmenide che Platone fu costretto in seguito a concepire gli enti come divenienti, a considerarli in rapporto con l’essere fin tanto che essi apparivano ed un nulla quando essi non apparivano più.
Non un nulla assoluto (nihil absolutum) certo, ma un nulla comunque sufficiente a negare il radicamento eterno di ogni cosa all’essere. Così, ad esempio, si giunge all’assurdo per cui il tempo che segue la morte dell’individuo non appartiene più al tempo eterno entro il quale stava il limite temporale del vissuto dell’individuo. L’essere che ha determinato l’esistenza dell’individuo ad un certo punto lo abbandonerebbe in una dimensione senza tempo. Ciò in aperto contrasto con la sua propria natura che rende possibile il limite temporale di ogni ente e l’esistente stesso unicamente se determinati all’interno del non-limite (apeiron) caratterizzante l’eterno.
Alberto Re

mercoledì 2 marzo 2011

COMPRENSIONE DELL'ESSERE - 1


A partire da oggi pubblico il mio saggio 'COMPRENSIONE DELL'ESSERE'. Lo pubblico dividendolo in brani che abbiano più o meno la stessa lunghezza.


AVVERTENZA

Ad un lettore attento ed informato non sfuggirà che le mie annotazioni sono in larga misura ispirate dalla filosofia di Emanuele Severino. Se il cuore della filosofia è la ricerca della verità, allora Emanuele Severino, se non il solo, è certamente tra i pochi che continuano a sostenere la centralità della filosofia rispetto ad ogni altro sapere specialistico, a evidenziare che unicamente dalla filosofia può venire una critica o una messa in discussione della filosofia stessa. Ed è ciò che Severino, da la ‘Struttura originaria’ sino a ‘La Gloria’ ed ‘ Oltrepassare’ passando per ‘Essenza del Nichilismo’ e ‘Destino della Necessità’ (per citare solo alcuni dei testi più significativi) fa. Pur evidenziando la grandezza della filosofia nel corso della sua storia, riesce a scorgere in questa grandezza un errore decisivo che ha segnato tutta la cultura occidentale ed ormai del mondo intero: la fede nel divenire. Egli vi contrappone l’eternità di ogni essente, dal più effimero al più elevato. L’eternità del tutto è nel destino della necessità. In questo nesso indissolubile ed incontrovertibile sta la verità, che parla all’uomo della sua Gloria e della sua Gioia.
Fatta questa doverosa avvertenza, va anche detto che ‘Comprensione dell’essere’ non è un trattato critico del pensiero di Severino, ma ha una sua ‘autonomia originale’ , volendo essere un contributo modesto e tuttavia seriamente impegnato a seguire la strada che porti ad una ‘Filosofia Futura’.



“Quando ai popoli apparisse l'eternità di ogni cosa, incomincerebbe ad apparire un mondo inaudito di abitare la Terra. E se l'uomo è volontà, ossia volontà che qualcosa divenga altro, il tramonto del divenir altro sarebbe il tramonto dell'uomo, ossia sarebbe l'apparire dell'oltre l'uomo”
EMANUELE SEVERINO da 'Nascere'




L'ESSERE

Dai primordi della filosofia, prioritaria e fondamentale è sempre stata l’interrogazione sull’essere.
D’altro canto si deve dire che la filosofia è essenzialmente filosofia dell’essere.
Ma nonostante che il problema sia stato sviscerato in tutti i suoi aspetti e da ogni lato, esso rimane tuttora insoluto.
E’ che l’essere sfugge a qualsiasi tentativo di oggettivazione. Esso non è percepito direttamente ma solo attraverso la presenza dell’ente, del ciò che è, della determinazione del qualcosa. Avviene che il fondamento esistenziale che rende possibile la determinazione del qualcosa rimane nascosto alla vista di quell’ente particolare (perché l’unico dotato di pensiero) che è l’uomo. Da parte dell’uomo c’è insomma visione della molteplicità delle cose che appaiono ma non della causa che rende possibile il loro apparire.
La luce che avvolge ogni singola esistenza e che è all’origine del proprio apparire si nega dunque alla percezione sensoriale dell’uomo. Questa luce che la ragione intuisce essere lo sfondo necessario per l’apparire di ogni cosa, non appare.
Una differenza ontologica che è carica di profonde conseguenze. La prima delle quali induce a pensare l’essere come pura entità metafisica, che è cioè al di là ed altro rispetto alla molteplicità degli enti. Di qui alla confusione dell’essere con il nulla il passo è breve così come lunga è la strada che contrassegna la storia della filosofia come storia del nichilismo.
Non che in tutti i grandi pensatori non sia ben chiara la netta opposizione tra l’essere ed il nulla. Il nichilismo non arriva mai alla negazione del reale. Ciò che rende possibile il nichilismo è la speculazione di segno negativo su ciò che, non apparendo, costituisce tuttavia la radice di tutta la realtà. Che esista una radice comune per ogni manifestazione del reale è parimenti compreso da tutti i grandi filosofi, per i quali ogni cosa non può originarsi da sé come fosse il risultato del tocco di una bacchetta magica, ma è in relazione alla universalità di ogni altra cosa, presente, passata e futura. Tuttavia l’impossibilità di avere esperienza dell’essere come la si ha di ogni ente particolare porta alla sua definizione come non-ente. Il ni-ente e l’essere, nonostante ogni ragione e volontà contraria, diventano la stessa cosa. Ed è questa sensazione, più profonda dell’inconscio studiato dalla psicoanalisi, che investe la vita del mondo che viviamo. E che è all’origine dello stato di conflitto permanente, dell’angoscia, della paura, del dolore. Della follia.
C’è evidentemente un errore che precede la natura stessa del pensiero umano, iscrivendosi nel destino stesso dell’essere. Quel destino che informa il tempo dell’uomo (la sua storia come la sua preistoria) portando con sé il segno di una verità che non può o non vuole mostrarsi nella sua totalità, nascondendosi invece dietro l’oblio di ciò che la costituisce, ovvero dell’essere.
D’altro canto il senso che conferiamo all’essere non appartiene ad uno dei cinque sensi attraverso i quali noi possiamo percepire la realtà e che costituiscono i mezzi attraverso i quali si dà la conoscenza. E che rappresentano altresì l’a-priori necessario perché si possa dare forma alle stesse idee, che proprio perché superano la materialità soggetta al riconoscimento dei sensi, dai sensi trovano il proprio alimento per la produzione di ciò che è astratto. L’astrazione intellettiva per essere oggetto di conoscenza non può dunque porsi prescindendo dalla realtà sensoriale o addirittura prefigurando il proprio risultato a partire dal cosciente disconoscimento dell'apporto dei sensi. Una siffatta formulazione metafisica riuscirà al meglio a sconfinare in un vuoto misticismo che ha come sua caratteristica quella di non avere alcun rapporto con nessun oggetto o forma eidetica. Per il misticismo il tutto è il nulla ed il nulla è il tutto. Calandosi il pensiero in questa prospettiva, è chiaro che le idee sull’essere che sono andate via via prospettandosi non sono riuscite a dire nulla sulla realtà dell’essere stesso. Hanno prodotto anzi intorno al problema dell’essere un alone di mistero che non ha ragione alcuna di persistere. Ma che ha contribuito largamente a determinare l’errore fondamentale di una identità tra l’essere ed il nulla che è la causa principale della vita alienata.
Dunque la via del misticismo non solo non porta da nessuna parte, ma è carica di conseguenze nefaste al fine di un corretto uso della ragione. Per il quale uso resta interamente valido quanto affermato da Kant.
Ponendo chiari limiti alla ragione pura ed alla ragione pratica, si evitano certamente fughe in avanti del pensiero in una regione metafisica dove non esisterebbero confini per ogni tipo di fantasia o credenza.
Questi stessi limiti determinerebbero però, all’opposto, l’impossibilità di dare ragione ed espressione alla illimitatezza della realtà dell’essere. Una realtà che continua così a rimanere nascosta, questa volta a causa della presunta inconoscibilità della cosa in sé.
(continua)
Alberto Re