lunedì 31 gennaio 2011

I GRANDI POLITICI: ALDO ANIASI

Profondamente legato alla città di Milano, Aniasi ha rappresentato nei prestigiosi incarichi ricoperti un esempio di passione e dedizione al bene della collettività”.
Il Presidente Emerito Carlo Azeglio Ciampi

Nell'attuale deserto culturale ed ideale della politica, diversi esponenti politici del passato, anche recente, assumono un rilievo particolare. Perché vi si riconosce in essi una capacità politica, un impegno ideale e civile, una onestà e valore intellettuale che oggi sono qualità del tutto scomparse.
Tra questi grandi politici, un posto in primo piano spetta ad Aldo Aniasi.
Di Aldo Aniasi ho la facoltà di poterne parlare con giusta causa per averlo conosciuto di persona, per avere avuto l'onore di godere della sua amicizia.
Grazie a questa amicizia, posso affermare che Aldo Aniasi oltre alle indiscusse qualità politiche è stato un uomo di grandissima umanità, di una educazione ed amabilità uniche, di una sensibilità nel comprendere il prossimo che si trova solo lungo il solco del socialismo umanitario. Nella storia culturale di Milano poi, Aldo Aniasi rimarrà per sempre tra le figure più rappresentative. Il Circolo De Amicis, da lui fondato, rappresenta senza alcun dubbio una associazione culturale di livello e fama mondiali.
Ma vi è una cosa che va al di là delle diversi fedi politiche e che accomuna tutti gli uomini veri: il riconoscimento di Aldo Aniasi come Simbolo del Combattente per la Libertà. Imperituro onore al Comandante Iso! Esempio fulgido di amore per la patria in uno spirito di fratellanza universale.
Solo se si riparte da esempi come questo può conservarsi una speranza di rinascita per questa povera Italia, oggi umiliata e derisa a causa di coloro che 'Iso' ha sempre fieramente combattuto.
Dalla breve biografia che riportiamo di seguito è d'obbligo sottolineare il passaggio in cui si dice che egli 'sostenne la necessità di disarmare le forze di polizia'.
Orbene, la necessità di disarmare le forze di polizia oggi è ancora più forte ed impellente. Poiché il Governo del Paese è nelle mani dei seguagi di Licio Gelli (P2), le forze armate di polizia costituiscono un pericolo serio per il popolo e per quel poco di sistema democratico che resiste, costituendosi di fatto a difesa dei Poteri Forti (Grande Capitale e servi al seguito).
La parola d'ordine dei 'Nuovi Partigiani' deve essere: DISARMIAMO LO STATO!
Alberto Re


Dalla Fondazione a lui intitolata abbiamo tratto i punti salienti della sua biografia.


FONDAZIONE ALDO ANIASI (sito internet http://www.fondazionealdoaniasi.it/)


Partecipò alla lotta di liberazione nelle file delle Brigate Garibaldi organizzate dal Partito Comunista Italiano, prendendo il nome di battaglia di Iso Danali (anagramma imperfetto del suo vero nome, più noto come Comandante Iso.). Da partigiano, combatté in Valsesia e successivamente in Ossola, diventando comandante della divisione partigiana “Redi”, al termine della Guerra era a capo della piazzaforte di Milano come componente del C.L.N.I., in tale veste celebrò un matrimonio che, al termine del conflitto, fu ritenuto valido e trascritto all’anagrafe, in quanto allora egli costituiva senza dubbio la massima carica civile i Milano.
Negli anni successivi alla guerra, è succeduto a Ferruccio Parri nel ruolo di presidente della Federazione Italiana Associazioni Partigiane.
Dopo la seconda guerra mondiale entrò in politica. Abbandonate le posizioni del PCI, militò prima nella corrente riformista del PSI, poi nel PSDI e successivamente di nuovo nel PSI. Ebbe una brillante carriera politica: consigliere comunale di Milano dal 1951, fu quindi assessore e, a partire dal 1967, sindaco del capoluogo lombardo. In tale occasione suscitò molte critiche quando, negli anni di terrorismo ad opera delle BR, sostenne la necessità di disarmare le forze di polizia. Fu lo stesso Aniasi a dare l’appoggio ai “comitati per una Polizia democratica” (il primo nucleo del sindacalismo in Polizia) che portavano dall’interno del corpo, l’istanza di smilitarizzazione (culminata con la legge 1 aprile 1981, numero 121)
Guidò la città fino al 1976, quando venne eletto alla Camera dei Deputati, dove rimase per cinque legislature, fino al 1994, e diventandone per 9 anni vicepresidente. All’inizio degli anni Ottanta fu per due volte ministro della Sanità, nei governi presieduti da Francesco Cossiga e Arnaldo Forlani; si deve a lui l’istituzione del servizio sanitario nazionale gratuito ed uguale per tutti. Fu quindi ministro per gli Affari regionali nei due governi Spadolini.
Amministratore di ospedali, consigliere della BNL. Fondatore dell’A.N.E.A. (Associazione Nazionale Enti di Assistenza), Aniasi fu decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare durante la Resistenza come Comandante partigiano e di Medaglia d’Oro “al Merito della Istruzione e della Cultura” per la sua attività politico-istituzionale.Dopo la crisi e lo scioglimento del Partito Socialista aderì al progetto dei Democratici di Sinistra, entrando nella direzione del partito.
QUARTO STATO

domenica 30 gennaio 2011

150 ANNI D'ITALIA


Non sono necessari lunghi discorsi.
Fatti salvi gli ideali risorgimentali ed il coraggio di combattente di Garibaldi, l'Unità d'Italia è nella verità storica il prodotto di un atto imperialista ed oppressivo del Regno Sabaudo, che all'epoca condivideva con lo Stato Pontificio il primo posto tra gli Stati Europei per la ferocia e la crudeltà esercitate nei confronti dei rispettivi sudditi.
Festeggiare l'Unità d'Italia? Sulla base di questi presupposti no di certo.
Solo attraverso la Lotta Partigiana, la ignominiosa fuga dei Savoia cui seguirono la nascita della Repubblica e la Costituzione di uno Stato di Diritto, è possibile trovare le motivazioni per amare la terra dei nostri padri.
Ma non basta. Occorre avere coscienza che l'attuale condizione dell'Italia esige la continuazione della Lotta Partigiana. Soprattutto in quest'ultimo ventennio (probabilmente peggiore di quello fascista, e non è una esagerazione affermarlo), il suolo italico è infangato da politici miserabili o, nel migliore dei casi, inetti e pusillanimi.
Se prima agivano in segreto, ora gli adepti della P2 sono usciti allo scoperto ed occupano tutti i più importanti e delicati posti di potere. Possiamo forse aspettarci da costoro di conoscere finalmente gli autori delle stragi che hanno insanguinato il suolo patrio? Proprio da quelli che almeno moralmente ne sono responsabili? Sostenuti da una ristretta cerchia di capitalisti che detiene il 95% della ricchezza nazionale, quale interesse avrebbero questi miserabili politici ad operare per una giusta politica fiscale? E' poi perlomeno utopistico sperare in un affrancamento dalla servitù subita da quella potenza guerrafondaia che porta il nome di Stati Uniti. Si potrebbe continuare a lungo, ma la malinconia mi assale. E con la malinconia lo sconcerto nel vedere come la maggior parte dei miei concittadini sia ridotta ad una massa di coglioni che indifferentemente vota per le veline o per scegliere chi si è già scelto. Protervia mascherata da Democrazia. Povera Democrazia, dove sei?
Quando le canaglie ed i loro servi (giornalisti, magistrati, forze del disordine) saranno messi in fuga come i Savoia (che ovviamente hanno fatto ritornare), allora potrò davvero festeggiare una Italia Liberata, una Italia fondata sul diritto.
Prima di allora, in prima linea a combattere.

Un partigiano

sabato 29 gennaio 2011

ANARCHIA - La purezza del pensiero politico


Il solo pensiero politico puro, incontaminato, luminoso perché l'unico non corroso dalla volontà di Potere si incarca nell'Anarchia.
L'anarchico è l'uomo che esprime il più elevato, ineguagliato ed incondizionato amore nei confronti dell'umanità intera.
L'Anarchia non è una delle tante forme di organizzazione politica. L'Anarchia parte certamente dalla politica ma per trascenderla. E l'Utopia costituisce la configurazione concreta della Trascendenza. E lo è in senso universale.
Per questo nella Filosofia Futura, l'Anarchia ricopre un ruolo essenziale.
Richiamando quanto scritto in precedenza su 'Il Libertarismo Contemporaneo' si aggiunga nella prospettiva di una Filosofia Futura che i prodotti immaginativi dell'intelligenza, i concetti a priori, tutta la farragine di lucubrazioni fantastiche considerate verità e sinora imposte come criterio base per il comportamento dell'uomo, stanno subendo da moltissimo tempo, per una cerchia ristretta, la sconfitta da parte della ragione e lo scredito da parte della coscienza.
Alberto Re

Io voglio:
Un tetto per ogni famiglia
del pane per ogni bocca
educazione per ogni cuore
luce per ogni intelligenza.
(Bartolomeo Vanzetti)

Riportiamo di seguito il testo di una celebre canzone di Léo Ferré:


GLI ANARCHICI


Non son l'uno per cento ma credetemi esistono
In gran parte spagnoli chi lo sa mai perché
Penseresti che in Spagna proprio non li capiscano
Sono gli anarchici

Han raccolto già tutto
Di insulti e battute
E più hanno gridato
Più hanno ancora fiato
Hanno chiuso nel petto
Un sogno disperato
E le anime corrose
Da idee favolose

Non son l'uno per cento ma credetemi esistono
Figli di troppo poco o di origine oscura
Non li si vede mai che quando fan paura
Sono gli anarchici

Mille volte son morti
Come è indifferente
Con l'amore nel pugno
Per troppo o per niente
Han gettato testardi
La vita alla malora
Ma hanno tanto colpito
Che colpiranno ancora

Non son l'uno per cento ma credetemi esistono
e se dai calci in culo c'è da incominciare
Chi è che scende per strada non lo dimenticare
Sono gli anarchici

Hanno bandiere nere
Sulla loro Speranza
E la malinconia
Per compagna di danza
Coltelli per tagliare
Il pane dell'Amicizia
E del sangue pulito
Per lavar la sporcizia

Non son l'uno per cento ma credetemi esistono
Stretti l'uno con l'altro e se in loro non credi
Li puoi sbattere in terra ma sono sempre in piedi

venerdì 28 gennaio 2011

LA BELLEZZA E' DONNA (3)

L'Oltre è la Gioia Eterna, la Gloria trionfante. Per coloro che sanno udire, l'Oltre parla già in questo presente, in questo 'esserci' su di una Terra isolata dal Destino della Verità. Dice che l'isolamento della Terra vuole l'esserci mortale e così il dolore, l'angoscia e la violenza che abitano il Tempo.
Ma questo dire è dire che l'errore è la morte, semplicemente perché la morte non esiste.
Per coloro che sanno vedere, l'oltre mostra segni evidenti di ciò che è la verità.
Uno di questi segni l'abbiamo scoperto nella bellezza della donna. Eppure la bellezza della donna vive sulla stessa terra violentata dal nichilismo. Certo vi vive, ma vi vive nella intelligenza dell'Oltre. Se parliamo della bellezza della donna e non della bellezza della natura è proprio a causa della intelligenza che la natura non possiede. Bellezza intelligente, dunque bellezza della donna.
Ma perché nella bellezza della donna individuiamo il segno dell'oltre? Rispondiamo, interrogando.
Che c'entra la bellezza della donna con la volontà di potenza della Tecnica?
Che c'entra la bellezza della donna con la fede nichilista dominante?
Che c'entra la bellezza della donna con la violenza e l'angoscia che avvolgono il mondo?
Che c'entra la bellezza della donna con il Potere, con l'idolatria del Denaro?
Che c'entra la bellezza della donna con la soffocata disperazione di una umanità ridotta a schiavitù dal 'libero mercato'?
alberto re

BONHEUR-VIVRE di Matisse

giovedì 27 gennaio 2011

LA BELLEZZA E' DONNA (2)

Sono celibe e questo è un privilegio. Perché posso amare, come amo, tutte le donne. Non ho ragioni di Stato (leggesi matrimonio e famiglia) che mi incatenino. Amo liberamente e liberamente giaccio con migliaia e migliaia di donne. Nessun libertino mi può eguagliare. In verità con ho nulla da spartire con libertini e dongiovanni, tutti schiavi di Eros. Questo Dio che dà la vita e promette la morte (thanatos) io l'ho sconfitto, da sempre. Da sempre sono oltre Eros, ragione per la quale godo di un amplesso universale, ove la mia virilità è eternamente ed estaticamente accolta dalla femminilità. Quell'accoglimento che è fonte inesauribile di piacere ed insieme è il suo superamento.
Perché solo così l'estasi dei sensi non produce sviamento, deiezione, alienazione del sé. Perché solo così all'estasi dei sensi è impedito il nascondimento della bellezza, compagna inseparabile della verità. Ed ecco che il piacere dei sensi è unito alla meraviglia per la bellezza della donna, ad uno stupore che non si riesce a descrivere. L'indicibile conservato nel mistero della donna si ritrova, non a caso, nella impossibilità a trovare nel linguaggio le parole atte a descrivere lo stato di un necessario oltrepassamento di sé. Tuttavia questo indicibile è pur sempre segno che, attraverso la bellezza muliebre, indica la ineluttabilità dell'Oltre. (segue)

Alberto Re

MONALISA

mercoledì 26 gennaio 2011

LA BELLEZZA E' DONNA

La bellezza è donna, come la sapienza. Ma se la sapienza (nel senso greco di episteme, ovvero di conoscenza incontrovertibile) ottiene oggi con la scienza e la tecnica il contrario di quel che si proponeva al suo nascere, a mantenere ancora salva la terra dal nichilismo estremo vi è solo la bellezza muliebre. E' questa luce, è solo questa luce che dà una speranza non illusoria. La speranza che il destino voglia svelare la verità dell'essere e con la verità, la gioia eterna.
La bellezza della donna è il segno che tutto ciò avverrà necessariamente.

Alberto Re




BRIGITTE BARDOT

martedì 25 gennaio 2011

L'ARTE E' - Michelangelo

PIETA'

E' POSSIBILE LA FELICITA' ?


La domanda che ci siamo posti nel titolo è antica quanto l’uomo, anche se si presenta viva nella sua coscienza solo a partire dalla nascita della filosofia. Sono quel genere di domande alle quali la ragione umana non ha mai saputo dare risposte definitive e soddisfacenti. Anche se nel nostro caso, per dire la verità, delle risposte sono state date e tutte o quasi sono state di segno negativo. La loro traduzione sintetica è che ‘La felicità sulla terra non è possibile’. Tanto che, come diceva il mitico Sileno (riportiamo a memoria), ‘Meglio sarebbe non essere mai nati, ma dal momento che si è nati la cosa preferibile è la morte’. Sui rari momenti di felicità (quando ci sono) prevale di gran lunga il tempo del dolore e dell’angoscia. Se dolore ed angoscia non sono per lo più avvertiti sensibilmente nella carne e nello spirito dell’uomo, è solo perché questi vive in una specie di condizione ipnotica, trattenendosi in quella caverna di cui parla Platone e che rappresenta il mondo della illusione.
La realtà che si presenta a chi riesca ad uscire dalla caverna non è però quella della perfezione delle idee e dell’eternità del tutto di cui parla sempre Platone. L’uomo storico e vivente, anche quando esce dal mondo delle illusioni, non vede nessun Dio che lo protegga da quel divenire delle cose, dal loro venire dal nulla e ritornarvi, che costituisce la sua sensazione concreta e primaria. Il voler vedere un Dio che salva dall’annientamento delle cose ed in primo luogo dall’annientamento di sé stessi ha costituito e costituisce certo l’atteggiamento predominante delle masse popolari che si configura nell’adesione alla forma escatologica delle religioni, ma tale atteggiamento è pur sempre un ritorno a quel mondo illusorio dal quale si vorrebbe fuggire. La verità non corrisponde a valori quantitativi o alla maggioranza numerica di qualsivoglia opinione. La verità dice oggi come ieri che l’uomo è solo sulla terra ed ognuno è destinato a sopportare nella solitudine il peso della propria finitezza mortale. Quello che neanche il più profondo degli inconsci può nascondere è, come si accennava, la sensazione angosciosa che scaturisce dal vedere la dominazione dell’essere da parte del divenire delle cose. L’impossibilità di com-prendere l’ essere (che, con Parmenide, è l’unica realtà com-prendente la totalità ed eternità della infinita molteplicità delle cose) da parte dell’esserci (esistenza), produce di converso la fede nella infinita possibilità ed imprevedibilità dell’accadimento di ogni evento, cosa, fatto. In una parola, di ogni ente. Abbiamo qui parlato di fede, non di verità. Ma la distanza tra fede e verità è la stessa distanza (opposizione) che sta tra la verità e l’errore. Se la constatazione del divenire è una fede, allora è anche un errore.
Eppure in tutta la storia della filosofia non è stata neppure sfiorata la eventualità che ciò che si presenta come l’evidenza suprema (il divenire delle cose) possa essere messo in discussione. Tanto meno è messo in discussione oggi, nel tempo in cui il mondo è dominato da quell’apparato scientifico e tecnologico che sul fondamento del divenire trova la sua ragione d’essere.
La tecnica si propone con tutta la sua straordinaria ed efficace volontà di potenza di riuscire là dove mito, filosofia e religione hanno fallito: eliminare dal cuore dell’uomo il terrore nei confronti del nulla e l’angoscia che è il sentimento prevalente del suo ‘esserci’ nel mondo. La tecnica riuscirà pure a percorrere interamente la via che condurrà al paradiso sulla terra : questa è comunque la via che nel momento storico che viviamo sta percorrendo l’umanità, non importa se ne sia o meno consapevole. Se dunque il termine del viaggio è il Paradiso, sarebbe lecito supporre che durante il cammino progressivamente decrescano angoscia e paure, e crescano felicità e serenità.
Ma quel che avviene è, senza ombra di dubbio, l’esatto contrario. Già rispetto all’uomo del medioevo che qualche certezza l’aveva (a cominciare da quella di ritenersi al centro dell’universo, il cosiddetto antropocentrismo), nell’uomo contemporaneo cresce giorno dopo giorno l’incertezza per il futuro, accompagnata dai dubbi sul senso della vita che lacerano il suo presente.
Aspettando il Paradiso, l’uomo diventa sempre più una cosa tra le cose in mano alla capacità manipolatrice e trasformatrice della tecnica. L’alienazione di cui parla Marx, il caos annunciato da Nieztsche sono poca cosa rispetto alla progressiva disgregazione di qualsiasi senso che si possa dare al concetto di ‘umano’.
Poiché la scienza non si riconosce nella ricerca della verità (dovendo questa possedere quel carattere definitivo ed incontrovertibile che si porrebbe in netto contrasto con la imprevedibilità del divenire, che rappresenta invece, come direbbe Aristotele, il sostrato su cui poggia la possibilità stessa della scienza), lo spazio che viene aperto è quello della opinabilità che segue il carattere specifico e frazionato nel quale si dividono i campi della indagine scientifica. Così se per l’empirismo l’uomo è il risultato del suo agire, per la psicoanalisi è la conseguenza del proprio inconscio.
Ed ancora per la biologia è la compiuta unità originata dalla particolarità del proprio DNA, a differenza della sociologia per la quale l’uomo è fondamentalmente funzione dell’ambiente in cui si trova a vivere. Si potrebbe continuare ancora a lungo, ma ritengo che questi esempi possano essere sufficienti a mostrare come oggi non esista per il concetto di ‘uomo’ una definizione univoca e valida per tutti.
Ciò che può apparire come una digressione rispetto alla domanda posta nel titolo, ha invece una sua giustificazione precisa. In quanto il soggetto (o l’oggetto) rispetto al quale poniamo l’interrogativo se possa o meno essere felice risulta indefinito e dai contorni confusi, allora la risposta non può essere data. Prima di ogni altra considerazione, la possibilità che un ente (nel nostro caso, l’uomo) possa essere una cosa piuttosto di un’altra, possa ricevere o meno un attributo o una qualità, dipende dalla condizione a-priori che quell’ente sia in grado di riconoscere la propria identità e natura (se è un soggetto) o di un certo ente si sia in grado di riconoscere in via definitiva e certa la propria sostanza e funzionalità (se è un oggetto).
Poiché la nostra indagine si riferisce ad un soggetto, è necessario che quel soggetto abbia piena coscienza di sé, si sappia come un ente particolare rispetto ad ogni altro ente che incontra nel mondo. La particolarità è accertata nel momento in cui l’ente particolare (l’uomo) acquisisce la consapevolezza di pensare se stesso, di pensare il pensiero. E, a questo punto, di porre il pensiero al di fuori e al di là del meccanismo razionalista imperante nel metodo della scienza.
Così facendo si mette in grado di recuperare l’antica posizione che in tempi lontanissimi lo aveva messo davanti al bivio dal quale si dipartivano due vie. La prima indicava lo stare dell’eternità dell’essere e del legame indissolubile di ogni cosa con l’essere stesso: la via, che per essere la via della verità, è anche quella della felicità e della gioia.
La seconda, sulla quale è caduta la scelta dell’essere umano, è la via della fede nel divenire: la via dell’errore e quindi del dolore, dell’angoscia, della infelicità. Che è poi la via che segna il tragitto che avrebbe portato alla civiltà della tecnica, ovvero alla dimensione attualmente esistente, e che con ogni probabilità porterà ad un Paradiso che non poggiando su criteri di verità bensì ipotetici, avrà in sé sempre la possibilità di trasformarsi in Inferno. Per questo motivo è ancora di là da venire l’angoscia estrema, insopportabile.
Ma il ritorno al punto di partenza dal quale si dipartono le due vie sopracitate non è un qualcosa che dipenda dalla volontà dell’uomo per la semplice ma sostanziale ragione che la volontà è uno dei modi, forse quello prevalente, in cui si manifesta la fede nel divenire, e quindi è l’errore originario da cui si generano la follia e il dolore.
Neppure la ragione, anche quando sia liberata dalle catene di un razionalismo calcolante e matematico che è proprio di tutte le scienze, può decidere per la via della verità e della gioia. Perché, daccapo, il decidere, la cui radice semantica è la stessa dell’uccidere, è il movimento attraverso il quale le cose vengono separate e così separate si tengono isolate le une dalle altre. Un processo, anche questo, che appartiene alla fede di un mondo diveniente.
Il momento storico che vive l’umanità non lascia vie di scampo: è destino che il dolore, l’angoscia, l’infelicità, la follia accompagnino ancora per molto tempo l’esserci dell’uomo nel mondo. Solo quando il tempo sarà avvertito come parte unita all’eterno, come lo spazio entro il quale l’eterno avrà la sua piena manifestazione, solo allora l’essere per la morte in cui consiste la vita assumerà un significato radicalmente diverso. Un significato che non parlerà con le parole del linguaggio attuale, anch’esso inserito in una dimensione diveniente (si vedano al riguardo le tesi della linguistica contemporanea), ma parlerà con le parole che sapranno tradurre un pensiero legato strettamente al senso veritiero del Destino.
E’ attraverso la comprensione del Destino, della sua Volontà come la sola veramente potente che l’ente che chiamiamo ‘uomo’ saprà del suo ‘esserci’ come necessariamente legato all’essere, nel modo veritiero con cui l’esserci nell’essere è ciò che è votato (destinato) alla gioia eterna. Ciò che è dato all’uomo della storia, all’uomo così come oggi è configurato, è quello che Heidegger chiama ‘oblio’ dell’essere, il suo ‘nascondersi’. Ma ciò che Heidegger e, fatta eccezione per Emanuele Severino, tutta la filosofia contemporanea non contempla, è che all’uomo è data anche la possibilità del rimanere in attesa che si compia quello che il destino vuole che si compia. Questo rimanere in attesa, se non può ottenere la felicità, apre però l’orizzonte entro il quale potrà darsi la comprensione dell’essere, che allora uscirebbe dal proprio nascondimento per mostrarsi come la gioia del tutto.
alberto re

lunedì 24 gennaio 2011

L'ARTE E' - Kandinsky

DIVERSI CERCHI

PARMENIDE - Sulla Natura


Parmènide di Elea (in greco Παρμενίδης; Elea, 515 a.C.450 a.C.) è stato un filosofo greco antico, presocratico. Fu il maggiore esponente della scuola eleatica.

SULLA NATURA
Le cavalle che mi trascinano, tanto lungi, quanto il mio animo lo poteva
desiderare,
mi fecero arrivare, poscia che le dee mi portarono sulla via molto celebrata
che per ogni regione guida l'uomo che sa.
Là fui condotto: là infatti mi portarono i molto saggi corsieri
che trascinano il carro, e le fanciulle mostrarono il cammino.
L'asse nei mozzi mandava un suono sibilante,
tutto in fuoco (perché premuto da due rotanti cerchi
da una parte e dall'altra) allorché si slanciarono
le fanciulle figlie del Sole, lasciate le case della Notte,
a spingere il carro verso la luce, levatisi dal capo i veli.
Là è la porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno,
e un architrave e una soglia di pietra la puntellano:
essa stessa nella sua altezza è riempita da grandi battenti,
di cui la Giustizia, che molto punisce, ha le chiavi che aprono e chiudono.
Le fanciulle allora, rivolgendole discorsi insinuanti,
la convinsero accortamente a togliere per loro la sbarra
velocemente alla porta. La porta spalancandosi
aprì ampiamente il vano dell'intelaiatura, i robusti bronzei
assi facendo girare nei loro incavi uno dopo l'altro:
gli assi fissati con cavicchi e punte. Per di là attraverso la porta
subitamente diressero lungo la carreggiata carro e cavalli.
La dea mi accolse benevolmente, con la mano
la mano destra mi prese e mi rivolse le seguenti parole:
"O giovane, che insieme a immortali guidatrici
giungi alla nostra casa con le cavalle che ti portano,
salute a te! Non è un potere maligno quello che ti ha condotto
per questa via (perché in verità è fuori del cammino degli uomini),
ma un divino comando e la giustizia. Bisogna che tu impari a conoscere ogni
cosa,
sia l'animo inconcusso della ben rotonda Verità
sia le opinioni dei mortali, nelle quali non risiede legittima credibilità.
Ma tuttavia anche questo apprenderai, come le apparenze
bisognava giudicasse che fossero chi in tutti i sensi tutto indaghi.
Orbene io ti dirò e tu ascolta attentamente le mie parole,
quali vie di ricerca sono le sole pensabili;
l'una che è e che non è possibile che non sia,
è il sentiero della Persuasione (giacchè questa tiene dietro alla Verità);
l'altra che non è e che non è possibile che non sia,
questa io ti dichiaro che è un sentiero del tutto inindagabile:
perché il non essere né lo puoi pensare (non è infatti possibile),
né lo puoi esprimere,
.......infatti il pensare implica l'esistere [del pensato]. (3)
Queste cose, benché lontane, vedile col pensiero saldamente presenti;
non infatti distaccherai l'essere dalla sua connessione con l'essere
né quando sia disgregato in ogni senso completamente con cura sistematica
né quando sia ricomposto.
...................... per me è lo stesso, (4)
da qualsiasi parte cominci: là infatti di nuovo farò ritorno.
II
(5) Bisogna che il dire e il pensare sia l'essere: è dato infatti essere,
mentre nulla non è; che è quanto ti ho costretto ad ammettere.
Da questa prima via di ricerca infatti ti allontano,
eppoi inoltre da quella per la quale mortali che nulla sanno
vanno errando, gente dalla doppia testa. Perché è l'incapacità che nel loro
petto dirige l'errante mente; ed essi vengono trascinati
insieme sordi e ciechi, istupiditi, gente che non sa decidersi,
da cui l'essere e il non essere sono ritenuti identici
e non identici, per cui di tutte le cose reversibile è il cammino.
Perché non mai questo può venire imposto, che le cose che non sono siano:
(6) ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero.
(7) nè l'abitudine nata dalle molteplici esperienze ti costringa lungo questa
via,
a usare l'occhio che non vede e l'udito che rimbomba di suoni illusori
e la lingua, ma giudica col raziocinio la pugnace disamina
che io ti espongo. Non resta ormai che pronunciarsi sulla via
che dice che è. Lungo questa sono indizi
in gran numero. Essendo ingenerato è anche imperituro,
tutt'intero, unico, immobile e senza fine.
Non mai era e sarà, perché è ora tutt'insieme,
uno, continuo. Difatti quale origine gli vuoi cercare?
Come e donde il suo nascere? Dal non essere non ti permetterò né
di dirlo né di pensarlo. Infatti non si può né dire né pensare
ciò che non è. E quand'anche, quale necessità può avere spinto
lui che comincia dal nulla, a nascere dopo o prima?
Di modo che è necessario o che sia del tutto o che non sia per nulla.
Giammai poi la forza della convinzione verace concederà che dall'essere
alcunché altro da lui nasca. Perciò né nascere
né perire gli ha permesso la giustizia disciogliendo i legami,
ma lo tien fermo. La cosa va giudicata in questi termini;
è o non è. Si è giudicato dunque, come di necessità,
di lasciare andare l'una delle due vie come impensabile e inesprimibile (infatti
non è
la via vera) e che l'altra invece esiste ed è la via reale.
L'essere come potrebbe esisitere nel futuro? In che modo mai sarebbe venuto
all'esistenza?
Se fosse venuto all'esistenza non è e neppure se è per essere nel futuro.
In tal modo il nascere è spento e non c'è traccia del perire.
Neppure è divisibile, perché è tutto quanto uguale.
Né vi è in alcuna parte un di più di essere che possa impedirne la contiguità,
né un di meno, ma è tutto pieno di essere.
III
Per cui è tutto contiguo: difatti l'essere è a contatto con l'essere.
Ma immobile nel limite di possenti legami
sta senza conoscere né principio né fine, dal momento che nascere e perire
sono stati risospinti ben lungi e li ha scacciati la convinzione verace.
E rimanendo identico nell'identico stato, sta in se stesso
e così rimane lì immobile; infatti la dominatrice Necessità
lo tiene nelle strettoie del limite che tutto intorno lo cinge;
perché bisogna che l'essere non sia incompiuto:
è infatti non manchevole: se lo fosse mancherebbe di tutto.
E' la stessa cosa pensare e pensare che è:
perché senza l'essere, in ciò che è detto,
non troverai il pensare: null'altro infatti è o sarà
eccetto l'essere, appunto perché la Moira lo forza
ad essere tutto intiero e immobile. Perciò saranno tutte soltanto parole,
quanto i mortali hanno stabilito, convinti che fosse vero:
nascere e perire, essere e non essere,
cambiamento di luogo e mutazione del brillante colore.
Ma poiché vi è un limite estremo, è compiuto
da ogni lato, simile alla massa di ben rotonda sfera
di uguale forza dal centro in tutte le direzioni;
che egli infatti non sia né un pò più grande né un pò più debole qui o là è
necessario.
Né infatti è possibile un non essere che gli impedisca di congiungersi
al suo simile, né c'è la possibilità che l'essere sia dell'essere
qui più là meno, perché è del tutto inviolabile.
Dal momento che è per ogni lato uguale, preme ugualmente nei limiti.
Con ciò interrompo il mio discorso degno di fede e i miei pensieri
intorno alla verità; da questo punto le opinioni dei mortali impara
a conoscere, ascoltando l'ingannevole andamento delle mie parole.
Perché i mortali furono del parere di nominare due forme,
una delle quali non dovevano - e in questo sono andati errati -;
ne contrapposero gli aspetti e vi applicarono note
reciprocamente distinte: da un lato il fuoco etereo
che è dolce, leggerissimo, del tutto identico a se stesso,
ma non identico all'altro, e inoltre anche l'altro [lo posero] per sé
con caratteristiche opposte, [cioé] la notte senza luce, di aspetto denso e
pesante.
Quest'ordinamento cosmico, appaente come esso è, io te lo espongo compiutamente,
cosicché non mai assolutamente qualche opinione dei mortali potrà superarti.
IV
(8) Ma dal momento che tutto è denominato luce e tenebra
e queste, secondo le loro attitudini sono applicate a questo e a quello,
tutto è pieno insieme di luce e di tenebra invisibile,
pari l'una e l'altra, perché né con l'una né con l'altra c'è il nulla.
(9) Conoscerai l'eterea natura e quanti astri sono
nell'etere e della pura e tersa lampada
del sole l'opera distruttrice, e di dove derivarono;
e apprenderai l'errabondo agire della luna dal tondo occhio
e la sua natura; conoscerai inoltre di dove la volta celeste che tiutto
circuisce
nacque e come la Necessità guidandola la costrinse
a osservare i limiti degli astri.
(10) .......... come la terra e il sole e la luna
e l'etere che tutto abbraccia e la celeste via lattea e l'olimpo
estremo e la calda forza degli astri si mossero al nascere
(11) Giacché le più strette vennero riempite di non mescolato fuoco,
le altre dopo di queste di tenebra e vi s'insinua una porzione di fuoco;
in mezzo a queste è la dea che tutto dirige;
per ogni dove infatti essa guida la dolorosa nascita e l'unione
spingendo la femmina ad unirsi con maschio e di nuovo all'inverso
il maschio ad unirsi con la femmina.
(12) Primo di tutti gli dei essa creò l'Amore.
(13) luce che brilla di notte di uno splendore non suo e si aggira intorno alla
terra,
(14) sempre riguardando verso i raggi del sole.
(15) Quale infatti è la mescolanza che ciascuno ha degli organi molto erranti,
tale mentalità si ritrova negli uomini; perché è sempre lo stesso
ciò che appunto pensa negli uomini, la costituzionalità degli organi:
in tutti e in ognuno; il di più infatti è pensiero.

martedì 18 gennaio 2011

lunedì 17 gennaio 2011

EMANUELE SEVERINO


Emanuele Severino costituirà un punto di riferimento costante su 'Filosofia Futura'. Estratti del suo pensiero saranno frequenti. Per ora ci limitiamo alla sua presentazione, tratta da wikipedia.
Segnalazione – Si veda il blog degli 'Estimatori di Severino' su Facebook.

EMANUELE SEVERINO

BIOGRAFIA
Si laurea all'Università di Pavia nel 1950, come alunno dell'Almo Collegio Borromeo, discutendo una tesi su Heidegger e la metafisica sotto la supervisione di Gustavo Bontadini. L'anno successivo ottiene la libera docenza in filosofia teoretica. Dal 1954 al 1970 insegna filosofia all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. I libri pubblicati in quegli anni entrano in forte conflitto con la dottrina ufficiale della Chiesa, suscitando vivaci discussioni all'interno dell'Università Cattolica e nella Congregazione per la dottrina della fede (l'ex Sant'Uffizio). Dopo un lungo e accurato esame la Chiesa proclama ufficialmente nel 1970 l'insanabile opposizione tra il pensiero di Severino e il Cristianesimo.
Il filosofo, lasciata l'Università Cattolica, viene chiamato all'Università Ca' Foscari di Venezia dove è tra i fondatori della Facoltà di Lettere e Filosofia, nella quale hanno insegnato e insegnano alcuni dei suoi allievi (Umberto Galimberti, Carmelo Vigna, Luigi Ruggiu, Mario Ruggenini, Italo Valent, Vero Tarca, Luigi Lentini, Giorgio Brianese, ecc.). Dal 1970 al 2001 è stato professore ordinario di filosofia teoretica, ha diretto l'Istituto di filosofia (diventato poi Dipartimento di filosofia e teoria delle scienze) fino al 1989 e ha insegnato anche Logica, Storia della filosofia moderna e contemporanea e Sociologia. È stato docente alle Vacances de l'Esprit nel 1996, nel 2001 e nel 2008.
Nel 2005 l'Università Ca' Foscari di Venezia lo ha proclamato Professore emerito. Attualmente insegna presso l'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È accademico dei Lincei e Cavaliere di Gran Croce. Da alcuni decenni collabora con il Corriere della sera.

PENSIERO

LA TEORIA DIALETTICA DEL SIGNIFICATO
Nel libro "La struttura originaria" (1958), Severino espone la struttura della verità del Tutto mediante una riforma della dialettica hegeliana. Il "significato originario", cioè l'essente che è ambito di significato di ogni significato, è costituito da una molteplicità di essenti, ma essendo ogni essente (e dunque anche le parti della molteplicità) "fondato" su tale molteplicità, quest'ultima non può che valere solo nella sua interezza e non per le singole parti. La molteplicità è cioè strutturata, ogni parte è se stessa in quanto è in relazione da sempre alle altre e all'intera struttura e viceversa. Nonostante che il dettato hegeliano esprima la verità come verità dell'intero, la dialettica del filosofo tedesco non riesce a costituirsi come costante fondamentale di ogni significato perché si pone come una teoria diveniente del significato stesso. Infatti, anche nelle dimensioni dell'essente che sono salve dal divenire temporale (tipicamente tutto il regno della "logica" e dell'"astratto", e cioè in sostanza tutto ciò che esula dalla dimensione della sensibilità), si produce un divenire "logico" in cui a concetti "passati" seguono concetti "futuri" che oltrepassano e conservano i primi. In tal modo, nel sistema hegeliano non vi è mai una dimensione realmente originaria che sia costante di ogni significato, tutto è in divenire verso la concretizzazione (innanzitutto "logica") di quel Senso che dovrebbe precedere ogni altro. Severino porta a compimento la critica che Hegel rivolgeva a Schelling sulla determinatezza del significato originario, mostrando che tale determinatezza non può che essere originaria solo se esclude di poter essere oltrepassata.

L'ETERNITA' DI TUTTI GLI ESSENTI
Severino affronta l'antico problema radicalizzato da Platone e Aristotele e ripreso poi in epoca moderna da Heidegger: il problema dell'essere. Per Severino, tutte le filosofie costituitesi precedentemente sono caratterizzate da un errore di fondo: la fede nel senso greco del divenire. Sin dagli antichi greci infatti, un ente (ovvero un qualcosa che è) viene considerato come proveniente dal nulla, dotato temporaneamente di esistenza e successivamente ritornante nel nulla.
Rifacendosi al pensiero di Parmenide, Severino riflette sull'opposizione assoluta tra essere e non-essere. Dato che tra i due termini non vi è nulla in comune, l'essere non può che rimanere costantemente uguale a se stesso, evitando di rimanere alterato dall'altro da sé. Anzi, essendo l'essere la totalità di ciò che esiste, non può esserci altro al di fuori di esso dotato di esistenza (Severino rifiuta quindi il concetto di differenza ontologica così come è stato avanzato da Heidegger). Per Severino, quindi, tutta la storia della filosofia è basata sull'errata convinzione che l'essere possa diventare un nulla.
Ma mentre Parmenide tentava di risolvere il conflitto tra il divenire e l'immutabilità dell'essere affermando l'illusorietà del divenire (negando l’esistenza delle cose del mondo e cadendo quindi in un'aporia), Severino sceglie una via differente, portando il suo pensiero a delle tesi estreme.
Dato che l'essere è, e non può mai diventare un nulla, ogni essente è eterno. Ogni cosa, ogni pensiero , ogni attimo sono eterni. Il divenire temporale non può quindi che rappresentare l'apparire successivo degli eterni stati dell'essere, così come i fotogrammi di una pellicola si susseguono sino a formare lo svolgimento completo di un film. Gli enti entrano ed escono da quello che Severino chiama cerchio dell'apparire. Ciò significa che quando un ente esce dal cerchio dell'apparire non diviene un nulla, ma si sottrae semplicemente alla vista: dunque, le cose esistono anche quando scompaiono ovvero non si vedono ("vedere senza vedere", dice Donato Sperduto in una tragicommedia sul pensiero severiniano).

DIMOSTRAZIONE DELL'ETERNITA' DI TUTTI GLI ESSENTI
La dimostrazione severiniana dell'eternità di tutti gli essenti, si basa sostanzialmente sul principio di non contraddizione, ma non nella versione che ne dà, nel Liber de Interpretatione, Aristotele. In essa anzi "il discorso del tramonto del senso dell'essere...trova la sua formulazione più rigorosa e più esplicita"[2].
Bisogna invece "ritornare a Parmenide", correggerne - con Platone - l'esito aporetico, dimostrando che l'evidenza fenomenica non è in contrasto col principio di non contraddizione, ma scoprendo anche che il divenire così come Platone lo pensa, come uscire dal nulla e ritornare nel nulla, non appare affatto, non è affatto evidente.
Di qui si potrà proseguire su una via (quella indicata da Parmenide, il "sentiero del giorno") ben diversa da quella imboccata con Platone dal pensiero occidentale.
Consideriamo la proposizione parmenidea: "...è infatti l'essere, il nulla non è" : tale proposizione esprime l'opposizione assoluta tra i termini essere e non essere; pertanto ogni essente è assolutamente opposto al nulla e non ci può essere né un tempo né uno stato in cui un ente non sia, come pensa invece il principio di non contraddizione aristotelico: "è necessario che l'essere sia, quando è, e che il non-essere non sia, quando non è". Quest'enunciato esprime il pensiero di un tempo, una condizione, in cui l'ente è nulla, in cui essere=nulla. Questa impossibile ed impensabile contraddizione costituisce la "follia essenziale" in cui cresce e sta, senza esserne consapevole, tutto il pensiero occidentale.
Infatti il pensiero occidentale pensa sì, consapevolmente, l'ente come essere, ma insieme come diveniente (pensa cioè che esca dal nulla e ritorni nel nulla). Ad esso sfugge invece che ciò equivale a pensare l'ente come nulla; e questo è il nichilismo più proprio, la follia che si annida nell'inconscio della filosofia, della scienza e della tecnica.

LA DIFFERENZA ONTOLOGICA
Per Heidegger, l'essere non è un ente tra gli enti. Esso rappresenta piuttosto l'apparire ontologico degli enti, e per questo motivo viene definito un transcendens rispetto all'ente. Severino rigetta la concezione heiddegeriana, affermando che la totalità dell'essere è costituita dalla totalità degli enti. La vera differenza ontologica è quindi per Severino quella che si costituisce tra l'essere (l'ente) diveniente e quello immutabile.
L'essere che appare e scompare non è lo stesso essere immutabile, ma è anch'esso eterno. Entrambi esistono, ma in differenti dimensioni. L'essere come fondamento è una struttura eterna e non soggetta ad alcun mutamento.
Tutto è avvolto (momentaneamente) dal nichilismo
Un po’ tutti i filosofi che l’hanno avuto sottomano, hanno inteso il nichilismo come allontanamento dalla verità, e l’hanno dunque declinato a seconda dell’idea di verità a cui stavano pensando. Nella prospettiva severiniana dell’eternità di tutte le cose, il nichilismo è dunque il credere che le cose siano mortali, ovvero che l’essere possa non essere, ed uscire e rientrare nel nulla. Se ogni essere può essere prodotto o annientato, allora questo è il principio della potenza estrema, perché è estrema la distanza da coprire tra l’essere e il nulla. Questo pensa tutta la cultura occidentale fin dai suoi esordi nella Grecia antica dei primi filosofi, e questo pensa ormai tutto il pianeta. Più esattamente, è dell’essenza della cultura occidentale che oggi tutti i popoli si nutrono, perché ritenendo indispensabile il potenziamento della tecnologia, devono rifarsi ai concetti fondamentali di quella particolare cultura che fin dagli inizi ha più radicalmente pensato concetti come potenza, creazione, distruzione, essere, nulla, energia, verità, errore, ecc. L’Occidente non domina casualmente il mondo, o perché ha una possibilità offensiva superiore; ma, al contrario, ha una possibilità offensiva superiore perché domina il mondo che crede nelle sue stesse imprescindibili idee guida (scienza, potenza, tecnica, salvezza, ecc.) e quindi in una cultura che ritiene più avanzata – e dove dunque l’avanzamento non è una virtù morale, ma la capacità di capire e fare più cose per sopravvivere all’imprevedibilità dell’esistenza.
Nichilismo, morte e destino
Severino ritiene che la filosofia abbia sempre cercato riparo contro il terrore che scaturisce dall'imprevedibilità dell'esistenza perché innanzitutto si è sempre creduto nell'evidenza del divenire degli enti, del loro uscire dal nulla e rientrarvi. Anche le grandi forme di episteme come quelle di Aristotele ed Hegel, che tendono a dare un ordine ed una configurazione prestabiliti all'esistenza, si muovono sullo stesso terreno.
L'intera storia dell'Occidente è quindi per Severino storia del nichilismo. La radicale distruzione dell'episteme operata da parte della filosofia contemporanea, e la rapida ascesa della scienza moderna ai vertici del sapere sono conseguenze inevitabili di questa forma di pensiero (la civiltà della tecnica è infatti la forma estrema di volontà di potenza). Secondo la logica severiniana, tutto ciò che appare, appare in maniera necessaria ed il progressivo manifestarsi degli eterni non segue quindi un ordine casuale. Ciò significa che la libertà dell'uomo non esiste, ma appare all'interno di quell'essente (anch'esso eterno) che è il nichilismo dell'Occidente. Ed è proprio all'interno dell'Occidente che appare il mortale come noi lo conosciamo.
Ma per Severino, l'Occidente è destinato al tramonto, per fare spazio al Destino della verità, la verità che testimonia la follia della fede nel divenire. Solo all'interno del Destino della verità la morte acquista un significato inaudito: in realtà la morte è la persuasione dell'assentarsi dell'eterno.

CONFUTAZIONE DELLA LIBERTA' E DELLA CONTINGENZA
L'esistenza della libertà appartiene al significato della contingenza dell'essente. Contingenza è l'unione della possibilità che l'essente accada con la possibilità che l'essente non accada, cioè il convenire di due predicati opposti allo stesso soggetto. Già per questa via, il problema della libertà (e della sua variante umana, il libero arbitrio) è risolto nella conclusione che si tratta di un significato contraddittorio. Ma lo si può dimostrare anche tenendo conto che la possibilità non accaduta di un evento non appare quando l'evento stesso sia accaduto, e dunque non appare il continuare ad essere contingente da parte dell'evento. Naturalmente è impossibile che un evento originariamente contingente divenga necessario, perché la necessità è l'incontraddittorietà originaria di ciò che si manifesta.

DIO E IL SUPERDIO
Da quanto detto precedentemente appare chiaro come nel pensiero di Severino non ci sia posto per il Dio comunemente inteso e da qui il contrasto insanabile con la Chiesa Cattolica.
Nel corso della storia della filosofia, e nel pensiero della Chiesa cattolica in particolare, l'affermazione dell'esistenza di qualcosa di immutabile (tra cui Dio in tutti i diversi modi nei quali filosofia e religione lo hanno concepito), è sempre stata fatta partendo dal presupposto che il divenire significhi la nascita dal nulla e il tornare nel nulla delle cose che in esso si presentano. Quest'affermazione è inoltre sempre avvenuta con l'intento di risolvere le varie contraddizioni che quel presupposto implica e di inventare un "rimedio" per l'"angoscia" che il pensiero dell'annienatamento provoca. Questo genere di immutabilità è quindi di segno diverso da quella che compete agli enti sulla base dell'impossibilità assoluta che qualcosa si annulli. Per questo motivo è impossibile che un esista un Dio come è stato pensato dalla religione e dalla filosofia. A maggior ragione è impossibile per Severino che esista il Dio del cristianesimo, che è tradizionalmente concepito come dotato della capacità di creare gli enti dal nulla e di mantenerli in esistenza grazie alla sua libera volontà (altrettanto libera potrebbe essere, per Dio, l'annichilimento - diverso dal concetto fisico di annichilazione -, e cioè la volontà di cessare la durata della loro esistenza per farli ritornare nel nulla).
Essendo ogni ente eterno, non può esserci né creazione né annientamento, e quindi neanche un Dio comunemente inteso. Alla luce del Destino della verità, ogni ente, anche il più insignificante, acquista un significato inaudito. L'uomo si porta quindi radicalmente al di là del superuomo e della volontà di potenza: l'uomo è un superdio, ben più grande del Dio della tradizione religiosa.L'inconciliabilità della dottrina dell'Essere in Severino e nel Tomismo è stata sostenuta da Cornelio Fabro.

La FONDAZIONE DELL'INTERSOGGETTIVITA'
Con il libro "La Gloria" (2001), Severino giunge, tra le altre cose, alla dimostrazione necessaria dell'esistenza degli "altri". Quando Cartesio infatti scopre che la carta vincente della scienza è la conferma delle ipotesi da parte dell' esperienza, e cioè da parte della presenza certa a me da parte delle cose, si apre il problema della fondazione dell'esistenza appunto di altre dimensioni che come la mia accolgono l'accadere del mondo, ma che a differenza della mia non sono da me "visibili". I fallimenti dei tentativi di soluzione a tale problema, a cominciare da quello di Cartesio, si determineranno essenzialmente per l'assenza del senso autentico dell' oltrepassamento dell'essente.
Nella "Gloria", Severino perviene alla fondazione del senso autentico dell' oltrepassamento dopo aver stabilito nelle opere precedenti che il divenire autentico non è il crearsi e l'annullarsi dell'essente, ma il comparire e lo sparire di ciò che è eterno. Ogni essente che appare è destinato ad essere oltrepassato, altrimenti diventa condizione indispensabile dell'apparire degli essenti e quindi originarietà che smentisce la sua "eventualità". Ma anche quella dimensione totale degli essenti che transita all'interno di un cerchio dell'apparire è un essente che deve essere oltrepassato, altrimenti si porrebbe come condizione stessa dell'apparire. Il suo oltrepassamento però non può essere effettuato nel cerchio della dimensione oltrepassata, altrimenti quell'essente deputato a oltrepassarla le apparterrebbe denunciandola contraddittoriamente come, insieme, oltrepassata e oltrepassante. Ma non può essere oltrepassata nemmeno nella Totalità infinita dell'essente perché essendo quest'ultima compiuta già da sempre, non potrebbe accogliere alcun altro essente. È necessario dunque che l'essente oltrepassante appartenga ad una dimensione finita e quindi ad un altro cerchio dell'apparire. Quindi l'oltrepassamento dell'attualità di un cerchio non avviene solo lungo la dimensione "verticale" del singolo cerchio, ma anche lungo quella "orizzontale" della costellazione di cerchi del destino che costituiscono il contenuto del Tutto infinito. L'oltrepassamento hegeliano invece conserva "idealmente", cioè astrattamente, ciò che oltrepassa, e non realmente, determinandone la distruzione. In contesto siffatto è fondata l'impossibilità dell'esistenza degli altri, perché l'altro che è il mio oltrepassante determinerebbe il mio superamento, e mi consegnerebbe ad una dimensione puramente ideale. Infatti nel sistema hegeliano l'esistenza degli altri significa l'esistenza di soggetti empirici, sensibili, che è quindi comunque interna all'esitenza produttiva dell'unico "Io".

LA GLORIA
Il nichilismo è come tutte le cose, destinato; ma è un evento, ed è impossibile per ogni evento perpetuare la sua manifestazione eternamente, perché solo alla struttura della verità compete - in quanto struttura e condizione stessa della manifestazione in generale – di apparire eternamente. Se un evento incominciasse ad apparire eternamente, diverrebbe una costante di ogni manifestazione, e cioè una condizione senza la quale nulla potrebbe più apparire; ma allora sarebbe dovuto apparire da sempre e non ad un certo momento come gli pertiene in quanto evento. Anche il nichilismo dunque ha nel suo destino l’evento del tramonto. Il suo tramonto coincide con l'evento costituito dalla Gloria (cioè la manifestazione) della verità - e del Tutto -, in cui la verità apparirà, dopo la morte, senza più essere contrastata dalla persuasione del nichilismo di poter isolare tra loro e dalla verità stessa i significati delle cose. Un evento, quello della Gloria, in cui è necessario che tramonti non solo il nichilismo, ma anche tutti i suoi “figli” – compresa la vita umana in quanto dimensione in cui ci si persuade di trasformare le cose per sopravvivere - traendole dal nulla e sospingendole nel nulla; e compresa la morte, in quanto conseguenza e compimento necessario della contraddizione in cui consiste la vita come ambito (fallito) della persuasione di avere potenza sulle cose. Nella Gloria sarà oltrepassata la dimensione umana e personale ed ognuno riconoscerà se stesso come una differenza dell'identità comune della manifestazione necessaria ed originaria del Tutto. Infatti, la Gloria è come detto manifestazione anche del Tutto; Tutto che nell'attuale contrasto con la verità prodotto dal nichilismo nella nostra conoscenza, non appare. Ad esempio non appaiono, oltre la mia, le altre dimensioni in cui gli eterni si manifestano e che con la mia costituiscono il contenuto infinito del Tutto. Oppure, non appaiono nella loro incontrovertibilità gli insiemi totali di tutte le strade che il mio "Io" ha già compiuto e le altre che compirà in eterno. Oppure ancora, essendo ogni significato "corrotto" dal nichilismo e rimandando per ciò stesso a significati "autentici", attualmente non appaiono questi ultimi. Al di fuori di un linguaggio più proprio ed adottando una terminologia compromessa ed inesatta, si può affermare come la Gloria non ponga limiti a ciò che in ambito nichilistico è noto come telepatia, conoscenza esatta del passato, visione profetica del futuro immutabile, onniscienza (per quel che compete all'infinito del Tutto di poter apparire nel finito del nostro essere). Nella Gloria non si è Dio, perché Dio crea ed annienta le cose anche e soprattutto quando ama; e dunque appartiene al regno dell’errore perché l'amore è volontà e la volontà è voler alterare il senso proprio ed eterno, cancellarne l'identità. Dio è quindi infinitamente meno della più umbratile tra le cose vere. Tutto è oltre Dio - e oltre la morte come risvolto necessario della vita.

SCRITTI PRINCIPALI
La struttura originaria, Brescia, La Scuola, 1958. Nuova edizione, con modifiche e una Introduzione 1979, Milano, Adelphi, 1981
Per un rinnovamento nella interpretazione della filosofia fichtiana, Brescia, La Scuola, 1960
Studi di filosofia della prassi, Milano, Vita e pensiero, 1963; nuova ediz. ampliata, Milano, Adelphi, 1984
Ritornare a Parmenide, in «Rivista di filosofia neoscolastica», LVI [1964], n. 2, pp. 137-175; poi in Essenza del nichilismo, Brescia, Paideia, 1972, pp. 13-66; nuova edizione ampliata, Milano, Adelphi, 1982, pp. 19-61
Essenza del nichilismo. Saggi, Brescia, Paideia, 1972; seconda edizione ampliata, Milano, Adelphi, 1982
Gli abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica, Roma, Armando, 1978; nuova edizione ampliata, ivi, 1981
Téchne. Le radici della violenza, Milano, Rusconi, 1979; seconda edizione, ivi, 1988; nuova edizione ampliata, Milano, Rizzoli, 2002
Legge e caso, Milano, Adelphi, 1979
Destino della necessità. Katà tò chreòn, Milano, Adelphi, 1980; nuova edizione, senza modifiche sostanziali, ivi, 1999
A Cesare e a Dio, Milano, Rizzoli, 1983; nuova ediz., ivi, 2007
La strada, Milano, Rizzoli, 1983; nuova ediz., ivi, 2008
La filosofia antica, Milano, Rizzoli, 1984; nuova ediz. ampliata, ivi, 2004
La filosofia moderna, Milano, Rizzoli, 1984; nuova ediz. ampliata, ivi, 2004
Il parricidio mancato, Milano, Adelphi, 1985
La filosofia contemporanea, Milano, Rizzoli, 1986; nuova ediz. ampliata, ivi, 2004
Traduzione e interpretazione dell’«Orestea» di Eschilo, Milano, Rizzoli, 1985
La tendenza fondamentale del nostro tempo, Milano, Adelphi, 1988; nuova ediz., ivi, 2008
Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Milano, Adelphi, 1989
La filosofia futura, Milano, Rizzoli, 1989; nuova ediz. ampliata, ivi, 2005
Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano, Rizzoli, 1990; nuova ediz., ivi, 2005
Filosofia. Lo sviluppo storico e le fonti, Firenze, Sansoni, 3 voll.
Oltre il linguaggio, Milano, Adelphi, 1992
La guerra, Milano, Rizzoli, 1992
La bilancia. Pensieri sul nostro tempo, Milano, Rizzoli, 1992
Il declino del capitalismo, Milano, Rizzoli, 1993; nuova ediz., ivi, 2007
Sortite. Piccoli scritti sui rimedi (e la gioia), Milano, Rizzoli, 1994
Pensieri sul Cristianesimo, Milano, Rizzoli, 1995; nuov ediz., ivi, 2010.
Tautótēs, Milano, Adelphi, 1995
La filosofia dai Greci al nostro tempo, Milano, Rizzoli, 1996
La follia dell'angelo, Milano, Rizzoli, 1997; nuova ediz., Milano, Mimesis, 2006
Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Milano, Rizzoli, 1998; nuova ediz., ivi, 2006
Il destino della tecnica, Milano, Rizzoli, 1998; nuova ediz., ivi, 2009
La buona fede, Milano, Rizzoli, 1999
L’anello del ritorno, Milano, Adelphi, 1999
Crisi della tradizione occidentale, Milano, Marinotti, 1999
La legna e la cenere. Discussioni sul significato dell'esistenza, Milano, Rizzoli, 2000
Il mio scontro con la Chiesa, Milano, Rizzoli, 2001
La Gloria, Milano, Adelphi, 2001
Oltre l’uomo e oltre Dio, Genova, il melangolo, 2002
Lezioni sulla politica, Milano, Marinotti, 2002
Tecnica e architettura, Milano, Cortina, 2003
Dall'Islam a Prometeo, Milano, Rizzoli, 2003
Fondamento della contraddizione, Milano, Adelphi, 2005
Nascere, e altri problemi della coscienza religiosa, Milano, Rizzoli, 2005
La natura dell'embrione, Milano, Rizzoli, 2005
Il muro di pietra. Sul tramonto della tradizione filosofica, Milano, Rizzoli, 2006
L'identità della follia. Lezioni veneziane, a cura di Giorgio Brianese, Giulio Goggi, Ines Testoni, Milano, Rizzoli, 2007
Oltrepassare, Milano, Adelphi, 2007
Immortalità e destino, Milano, Rizzoli, 2008
La buona fede, Milano, Rizzoli, 2008
L'etica del capitalismo, Milano, Albo Versorio, 2008
Verità, volontà, destino, con un saggio di M. Donà, Milano-Udine, Mimesis, 2008(con due CD audio).
L'identità del destino, Milano, Rizzoli, 2009
Il diverso come icona del male, Bollati Boringhieri, 2009
Democrazia, tecnica, capitalismo, Morcelliana, 2009
Discussioni intorno al senso della verità, Pisa, Edizioni ETS, 2009
La guerra e il mortale, a cura di L. Taddio, con un saggio di G. Brianese, Milano-Udine, Mimesis, 2010 (con due CD audio).
Macigni e spirito di gravità, Milano, Rizzoli, 2010.
L'intima mano, Milano, Adelphi, 2010.

venerdì 14 gennaio 2011

UN MILIARDO DI PERSONE ALLA FAME


L'URLO
di Edvard Munch

Qui ed ora (l'hic et nunc dei latini), su questo pianeta chiamato Terra, un miliardo di persone sono ridotte alla fame! Sono dati della FAO, inconfutabili.
Ciononostante resistono una miriadi di cialtroni, più fortunati, che continuano a credere e a voler far credere al loro prossimo sulle 'magnifiche sorti e progressive' del genere umano cui sarcasticamente faceva cenno Giacomo Leopardi.
Nei cervelli di costoro, dove domina incontrastata l'ignoranza, vi è la convinzione che la storia umana segua un percorso lineare nel segno del progresso. Vivono condizionati da due secoli di menzogne, di distorsioni mentali, il cui apice e la cui sintesi si riconducono a quel filone di pensiero filosofico auto definentesi 'positivista' ed 'illuminista'. Prodotto da una parte della classe borghese con l'intenzione di porsi in conflitto e di averla vinta sull'altra parte della borghesia, quella reazionaria e conservatrice. Tutto in famiglia. Della povera gente, del proletariato, interessava forse qualcosa ai vari Fichte, Schelling, . . . Hegel e compagnia scrivente? Hegel, quello della Idea Assoluta incarnantesi nello Stato, stadio ultimo del processo dialettico!? Che mostruosità!
Fatte alcune debite eccezioni, la nascita di una Filosofia Futura esige la mesa al bando di molti di coloro che hanno fatto la storia della Vecchia Filosofia.
Dare la parola al proletariato, a coloro che oggi sono vinti e sottomessi: questa è la sola strada (la Via del Giorno indicata da Parmenide) perché possa dispiegarsi la Verità. E' difficile, è impossibile?
Può essere, ma allora occorre avere coscienza che per le generazioni future il destino riserverà una Notte ancor più buia, ancor più tetra, ancor più tenebrosa di questa attuale.
Incominciamo a dire le cose che vanno dette, senza sofismi, senza giri di parole, senza capziosità, senza falsi miti.
Se 'dire è fare', allora dire pane al pane e vino al vino è fare del pane e del vino da dare ai morenti per fame. La Filosofia Futura si colloca in questa concretezza. Dove non si giustifica l'uso incontrollato del petrolio (causa prima di un inquinamento ormai irreversibile del pianeta), dove si sa che non esistono bombe 'intelligenti', dove si deve avere il coraggio di denunciare l'Impero Statunitense come criminale, dove si deve indicare nell'economia capitalista dominante il cancro che divora le carni e lacera lo spirito. Dove la risposta non può essere trovata nei Miti contemporanei, nelle Religioni, nella Scienza e nella Tecnica, ma nell'ancora Inaudito, che tuttavia molte coscienze percepiscono farsi innanzi nella Parola dell'Oltre, nella Parola del Destino della Necessità.


Alberto Re

giovedì 13 gennaio 2011

L'ARTE E' - LA FORMA

DA
COMPRENSIONE DELL'ESSERE

LA FORMA

L'Arte Figurativa (pittura e scultura) sono la Forma per eccellenza. Sin dai tempi più antichi dei disegni rupestri, fino ai più recenti dell'astrattismo o concettualismo, l'uomo vede la realtà attraverso la capacità di creare forme con le proprie mani. La concezione Platonica di arte quale copia della natura va ribaltata: è la natura che è compresa a partire dall'arte e non viceversa. Senza la messa a fuoco della lente dell'arte, la natura è un qualcosa di in-forme, di in-sensato. Quando si parla di arte, si pensa alla estetica, ovvero alla manifestazione del bello, assumendo l'estetica quale essenza dell'Arte. In verità l'estetica è una qualità dell'Arte , non la sua essenza. Il 'bello' deriva dalla visione dell'opera che l'uomo-artista compie dando vita alla materia inerte. Prima di tale operazione, non esiste ciò che successivamente viene rappresentato ed interpretato come natura. Il significato con cui comunemente si designa la natura è il risultato della attività umana, a partire dall'intenzionalità che la precede sino all'atto compiuto che la realizza. Non che ciò che verrà chiamata 'natura' non appaia prima che l'uomo la comprenda attraverso il proprio fare. Ma è che prima dell'arte, i nostri più antichi antenati si percepiscono inclusi nella natura e credono di obbedire alle stessi leggi. Ineluttabilità, inviolabilità, predeterminazione accompagnano ogni cosa che appare nel mondo e l'apparire stesso del mondo. Il distacco dell'uomo dalla natura coincide con l'atto creativo dell'arte che a sua volta è reso possibile dalla presa di coscienza del potere racchiuso in quello straordinario strumento, unico nel mondo animale, che sono le mani. Non a caso abbiamo il termine manipolazione ad indicare l'atto primigenio della produzione (poiesis). E con la consapevolezza del potere manipolatore viene contestualmente alla luce il quid disponibile ad essere manipolato. Viene allora alla luce la physis, la cui traduzione corrente è 'natura', ma il cui significato originario è 'divenire'. Accade che quella inviolabilità ed inflessibilità delle cose di cui si è accennato poc'anzi comincia ad essere percepita in senso opposto. Molte cose si rendono disponibili alla manipolazione, sono soggette alla volontà umana. Non siamo ancora alla frantumazione del tutto come avviene oggi nel tempo del dominio della tecnica, poiché si vuole che alcune cose rimangano legate alle divinità mitiche, ma il passo decisivo è compiuto. Il divenire sarà successivamente, con la nascita della filosofia, posto in evidenza quale evento indiscusso ed indiscutibile. Almeno sino all'attuale pensiero di Emanuele Severino che nel divenire scopre una fede e come tale l'errore, l'errore fondamentale che porta alla follia nichilista. Su questo tema centrale ci siamo più volte soffermati, tanto da ritenere sufficiente il suo semplice richiamo. Qui interessa rilevare, come abbiamo fatto, il ruolo che l'Arte ha avuto in questa svolta epocale . La sua traduzione in 'techne' ne è la conferma. Tuttavia l'Arte non può essere messa sullo stesso piano della 'tecnica in generale'. Dopo aver portato alla coscienza dell'uomo il suo essere in opposizione alla natura e in base a tale opposizione avergli conferito la consapevolezza di poterla dominare, l'Arte prende le distanze dal fare generalizzato, in cui l'utile prevale sull'interesse per la forma. Se l'Arte ha senz'altro contribuito alla fatale trasformazione concettuale dell'essere in divenire, essa non può per l'essenza che le è esclusiva accettare le conseguenze alle quali la fede nel divenire conduce. In quanto ordinatrice della forma, non si ritrova in quel processo tecnico in cui l'ordine formale è casuale, potendosi allo stesso modo prodursi il disordine ed il caos. Idem dicasi per l'emergere di quella volontà di potenza che ha quale scopo l'assenza di ogni scopo che non sia la propria indefinita espansione. Ciò che nella filosofia ha rappresentato l'episteme, nell'Arte è rappresentato dalla fondazione del Bello quale equivalente formale della Verità. In entrambi i casi, si assiste alla edificazione di un qualcosa di fermo ed inattaccabile che consenta riparo e rimedio alla terrificante irruzione del nulla. L'episteme ed il bello si vuole perciò che siano lo stare irremovibile ed incontrovertibile nell'essere. Per quanto la soluzione conservi nel sottosuolo la fede nel divenire, essa vale comunque come indicazione del pensare e del fare secondo verità. La dissoluzione dell'episteme e del bello cui assistiamo nell'era contemporanea non intacca la indicazione secondo cui il vero ed il bello sono il contenuto essenziale della comprensione dell'essere. Dalla follia, con i suoi connotati di violenza, terrore, angoscia, che avvolge il mondo presente non se ne esce se non con il recupero del vero secondo l'indirizzo della 'Filosofia Futura' e con il recupero del bello secondo l'apparire di forme che danno gioia. La sottolineatura del bello nell'arte non smentisce il principio che il bello non è l'essenza dell'arte. Essenza di cui si è in parte già accennato, ma che è bene ribadire nella definizione di arte quale 'fondamento della forma'. E' la 'scoperta' della forma che genera il bello. Che, una volta operata la selezione dal fare generalizzato, riguarderà solo quelle forme che obbediscono a precisi criteri 'estetici' . Quantunque tali criteri siano nel tempo mutati (oggi 'l'armonia tra le parti ' lascia il posto alla concettualizzazione astratta della realtà) , resta invariato il rapporto per cui il bello è prerogativa esclusiva dell'arte. Il bello non si addice di per sé alla natura se non come 'riflesso' di uno sguardo e di una educazione estetica. Ma ogni valutazione sulla forma, che sia di ordine estetico o utilitaristico o ancora di ordine pratico o teorico, esige apriori la comprensione della realtà formale. E tale comprensione passa attraverso l'intervento teorico e pratico (operativo) dell'Arte. Di qui scaturisce una fondamentale deduzione: in quanto l'Essere si manifesta sempre nella forma di ciò che appare, l'Arte essendo comprensione della forma è comprensione dell'Essere. E' grazie a tale comprensione che la forma acquisisce il dono della bellezza e la bellezza porta con sé (se-duce) la gioia.

Alberto Re

L'ARTE E' - Matisse

Henri Émile Benoît Matisse (Le Cateau-Cambrésis, 31 dicembre 1869Nizza, 3 novembre 1954) è stato un pittore, incisore, illustratore e scultore francese.Matisse è uno dei più noti artisti del ventesimo secolo, conosciuto principalmente per essere l'esponente di maggior spicco della corrente artistica dei Fauves.





Dance

martedì 11 gennaio 2011

IL LIBERTARISMO CONTEMPORANEO


Ferma restando l'ispirazione al modello classico del Libertarismo Europeo, il Libertarismo Contemporaneo presenta caratteri peculiari che ne fanno un 'SOGGETTO UNICO' nel panorama politico.
L'oltrepassamento dello schema destra e sinistra (in uso per indicare nella prima un atteggiamento conservatore e/o reazionario e nella seconda un atteggiamento progressista e/o rivoluzionario) costituisce uno degli aspetti salienti della UNICITA' LIBERTARIA.
Il Libertarismo Contemporaneo si rivolge indistintamente a tutti i cittadini, convinto che la stragrande maggioranza abbia gli stessi bisogni e le stesse aspirazioni: migliorare le proprie condizioni di vita. Compito del Libertarismo è di convincere che tale miglioramento è possibile solo attraverso un cambiamento radicale dello stato attuale del Mondo.
L'Utopia, che rientra nel campo del possibile e del razionale, si sostanzia in un Progetto di società autenticamente rivoluzionario, per il quale si sia capace di discutere e ridiscutere tutto, anche la cosa che appare come la più evidente ed intangibile. Dal problema ontologico (l'essere eterno di ogni cosa o il nichilismo del divenire delle cose) al problema economico- pragmatico (un salario minimo garantito per tutti o la 'libera' disponibilità della forza lavoro).
Va da sé che, per essere credibile, il Libertarismo per primo deve sapersi mettere in discussione: il Libertarismo Contemporaneo ha cominciato a farlo seriamente.
L'acceso individualismo del Libertarismo classico è decisamente ridimensionato nel senso di una comprensione dell'individuo non come monade ma come determinazione di sé in relazione alla comunità di ogni altro sé (individuo sociale). Dunque l'individuo si dà, è, solo nel rapporto sociale.
L'idea romantica di una libertà assoluta dei vecchi libertari viene anch'essa criticata. Di più ne viene negata la validità in ragione del fatto che il libero arbitrio è negazione stessa della libertà, è autonegazione. La libertà diventa 'consentimento alla necessità'. In questa prospettiva le finalità principali del libertarismo quali la fratellanza universale, l'eguaglianza, il superamento del sistema economico capitalistico e del sistema politico statuale rientrano allora nel campo della necessità: la libertà di volerle e dell'agire per attuarle è inclusa essa stessa in tale necessità.
L'atteggiamento anti-clericale, come opposizione al potere ecclesiastico, è diventato inattuale e superfluo. Rimane valido l' a-confessionalismo che è condizione sine qua non del Laicismo.
I Principi ai quali il Libertarismo non può assolutamente rinunciare, in quanto fondativi e dunque inalienabili, sono due: LA NON VIOLENZA E L'ANTI-AUTORITARISMO.
Sulla base di tali Principi prendono corpo le linee generali del programma politico del Libertarismo . In sintesi:
Sul piano della organizzazione dello Stato il Libertarismo è FEDERALISTA;
Sul piano della organizzazione economica il Libertarismo è COOPERATIVISTICO
Sul piano delle relazioni interpersonali il Libertarismo è SOLIDARISTA
Sul piano delle fedi religiose il Libertarismo è NEUTRALE
Sul piano del rapporto Stato-Cittadini il Libertarismo è per il PRIMATO DEL CITTADINO

alberto re

sabato 8 gennaio 2011

KARL HEINRICH MARX


Karl Heinrich Marx (Treviri, 5 maggio 1818Londra, 14 marzo 1883) è stato un filosofo, economista e rivoluzionario tedesco.
Il suo pensiero è interamente retto, in chiave
materialista, sulla critica all'economia, alla politica, alla società e alla cultura contemporanea. Fondatore e primo teorico del Socialismo scientifico, del Materialismo storico e del Materialismo dialettico, è considerato tra i filosofi maggiormente influenti sul piano politico e filosofico nella storia del Novecento.


ESTRATTI DA VARIE OPERE (1)

IL DENARO - "Il denaro, in quanto possiede la proprietà di comprar tutto, di appropriarsi di tutti gli oggetti, è dunque l' oggetto in senso eminente. L'universalità della sua proprietà costituisce l'onnipotenza del suo essere, esso è considerato, quindi come ente onnipotente...Il denaro è il mediatore fra il bisogno e l'oggetto, fra la vita e il mezzo di vita dell'uomo. Ma ciò che media a me la mia vita mi media anche l'esistenza degli altri uomini. Per me è questo l'altro uomo. (---) Tanto grande è la mia forza quanto grande è la forza del denaro. Le proprietà del denaro sono mie, di me suo possessore: le sue proprietà e forze essenziali. Ciò ch'io sono e posso non è dunque affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella fra le donne. Dunque non sono brutto, in quanto l'effetto della bruttezza, il suo potere scoraggiante, è annullato dal denaro. Io sono, come individuo storpio, ma il denaro mi dà 24 gambe: non sono dunque storpio. Io sono un uomo malvagio, infame, senza coscienza, senza ingegno, ma il denaro è onorato, dunque lo è anche il suo possessore. Il denaro è il più grande dei beni, dunque il suo possessore è buono: il denaro mi dispensa dalla pena di esser disonesto, io sono, dunque, considerato onesto; io sono stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di ogni cosa: come potrebbe essere stupido il suo possessore? Inoltre questo può comprarsi le persone intelligenti, e chi ha potere sulle persone intelligenti non è egli più intelligente dell'uomo intelligente? Io, che mediante il denaro posso tutto ciò che un cuore umano desidera, non possiedo io tutti i poteri umani? Il mio denaro non tramuta tutte le mie deficienze nel loro contrario? (---) Poichè il denaro, in quanto concetto esistente e attuale del valore, confonde e scambia tutte le cose, esso costituisce la generale confusione e inversione di ogni cosa, dunque il mondo sovvertito, la confusione e inversione di tutte le qualità naturali e umane. (---) Il denaro, questa astrazione vuota ed estraniata della proprietà, è stato fatto signore del mondo. L'uomo ha cessato di essere schiavo dell'uomo ed è diventato schiavo della cosa; il capovolgimento dei rapporti umani è compiuto; la servitù del moderno mondo di trafficanti, la venalità giunta a perfezione e divenuta universale è più disumana e più comprensiva della servitù della gleba dell'era feudale; la prostituzione è più immorale, più bestiale dello ius primae noctis . La dissoluzione dell'umanità in una massa di atomi isolati, che si respingono a vicenda, è già in sè l'annientamento di tutti gli interessi corporativi, nazionali e particolari ed è l'ultimo stadio necessario verso la libera autounificazione dell'umanità". (MARX e ENGELS dai MANOSCRITTI ECONOMICO-FILOSOFICI DEL 1844 e da altre opere)

"La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressi ed oppressori sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta.". (Marx-Engels, MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA - 1848)

- "La società borghese è la più complessa e avanzata organizzazione storica della produzione. Le categorie che esprimono i suoi rapporti e che fanno comprendere la sua struttura permettono, dunque, di comprendere parimenti la struttura e i rapporti di produzione di tutte le forme di società del passato sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è costruita, e di cui sopravvivono in essa ancora residui parzialmente non superati. (---) L'economia politica, in quanto borghese, cioè in quanto concepisce l'ordinamento capitalistico invece che come grado di svolgimento storicamente transitorio addirittura all'inverso, come forma assoluta e definitiva della produzione sociale, può rimanere scienza soltanto finchè la lotta di classe rimane latente o si manifesta soltanto in fenomeni isolati. (---) Condizione essenziale per l'esistenza e il dominio della classe borghese è l'accumulazione della ricchezza nelle mani dei privati e la formazione e l'aumento del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. (---) La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come un' immane raccolta di merci e la merce singola si presenta come una forma elementare. Perciò la nostra indagine inizia come analisi della merce.". (da varie opere)
- "Prendiamo l'esempio del nostro filatore. Per ricostruire ogni giorno la sua forza-lavoro, egli deve produrre un valore giornaliero di tre scellini, cosa che egli fa lavorando sei ore al giorno. Pagando il valore giornaliero o settimanale della forza-lavoro del filatore, il capitalista ha acquistato il diritto di usare questa forza-lavoro per tutto il giorno o per tutta la settimana. Perciò egli lo farà lavorare, supponiamo, dodici ore al giorno. Oltre le sei ore che gli sono necessarie per produrre l'equivalente del suo salario, cioè del valore della sua forza lavoro, il filatore dovrà, dunque, lavorare altre sei ore, che io chiamerò ore di sopralavoro e questo sopralavoro si incorporerà in un plusvalore e in un sopraprodotto.". (da IL CAPITALE, 1867)

IL PROFITTO - "Il plusvalore, cioè quella parte di valore complessivo della merce in cui è incorporato il sopralavoro o lavoro non pagato dell'operaio, io lo chiamo profitto.". (da SALARIO, PREZZO E PROFITTO - 1865)

"Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi sorgerà un'associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno sarà la condizione per il libero sviluppo di tutti.". (Marx-Engels, MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA - 1848)

L'ALIENAZIONE - " Nell'alienazione dell'oggetto del lavoro si riassume solo l'alienazione, l'espropriazione, dell'attività stessa del lavoro. In cosa consiste ora l'espropriazione del lavoro? In primo luogo in questo: che il lavoro resta esterno all'operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l'operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato, ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, ma mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito. L'operaio si sente dunque con se stesso solamente fuori del lavoro, e fuori di sè nel lavoro. Come a casa sua è solo quando non lavora e quando non lavora non lo è. Il suo lavoro non è volontario, ma forzato, è lavoro costrittivo. Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, ma è solo un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni ad esso. La sua estraneità risalta nel fatto che, appena cessa di esistere una costrizione fisica o d'altro genere, il lavoro è fuggito come una peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l'uomo si espropria, è un lavoro-sacrificio, un lavoro mortificazione. In fine l'esteriorità del lavoro al lavoratore si palesa in questo: che il lavoro non è cosa sua ma di un altro; che non gli appartiene, e che in esso egli non appartiene a sè, ma ad un altro. Come nella religione l'attività spontanea dell'umana fantasia, dell'umano cervello e del cuore umano, opera indipendentemente dall'individuo, cioè come un'attività estranea, divina o diabolica, così l'attività del lavoratore non è attività spontanea. Essa appartiene ad un altro, è la perdita del lavoratore stesso. Il risultato è che l'uomo (il lavoratore) si sente libero ormai solo nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generare, tutt'al più nell'avere una casa, nella sua cura corporale, ecc. e che nelle sue funzioni umane si sente solo più una bestia. Il bestiale diventa l'umano e l'umano il bestiale. (---) Il lavoro alienato 1)aliena all'uomo la natura ; 2) aliena all'uomo se stesso, la sua attiva funzione, la sua attività vitale, aliena così all'uomo il genere; (---) il lavoro alienato fa dunque 3)della specifica essenza dell'uomo, tanto della natura che dello spirituale potere di genere, un'essenza a lui estranea, il mezzo della sua individuale esistenza; estrania all'uomo il suo proprio corpo, come la natura di fuori, come il suo spirituale essere, la sua umana essenza; 4)che un'immediata conseguenza, del fatto che l'uomo è estraniato dal prodotto del suo lavoro, dalla sua attività vitale, dalla sua specifica essenza, è lo straniarsi dell'uomo dall'uomo. Quando l'uomo sta di fronte a se stesso, gli sta di fronte l'altro uomo. ". (MARX: MANOSCRITTI ECONOMICO-FILOSOFICI DEL 1844)

Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d’un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d’uso di qualsiasi genere. Tuttavia, affinché il possessore di denaro incontri sul mercato la forza-lavoro come merce debbono essere soddisfatte diverse condizioni. In sé e per sé, lo scambio delle merci non include altri rapporti di dipendenza fuori di quelli derivanti dalla sua propria natura. Se si parte da questo presupposto, la forza-lavoro come merce può apparire sul mercato soltanto in quanto e perché viene offerta o venduta come merce dal proprio possessore, dalla persona della quale essa è la forza lavoro. Affinché il possessore della forza-lavoro la venda come merce, egli deve poterne disporre, quindi essere libero proprietario della propria capacità di lavoro, della propria persona. Egli si incontra sul mercato con il possessore di denaro e i due entrano in rapporto reciproco come possessori di merci, di pari diritti, distinti solo per essere l’uno compratore, l’altro venditore, persone dunque giuridicamente eguali. La continuazione di questo rapporto esige che il proprietario della forza-lavoro la venda sempre e soltanto per un tempo determinato; poiché se la vende in blocco, una volta per tutte, vende se stesso, si trasforma da libero in schiavo, da possessore di merce in merce. Il proprietario di forza-lavoro, quale persona, deve riferirsi costantemente alla propria forza-lavoro come a sua proprietà, quindi come a sua propria merce; e può farlo solo in quanto la mette a disposizione del compratore ossia gliela lascia per il consumo, sempre e soltanto, transitoriamente, per un periodo determinato di tempo, e dunque, mediante l’alienazione di essa, non rinuncia alla sua proprietà su di essa. La seconda condizione essenziale, affinché il possessore del denaro trovi la forza-lavoro sul mercato come merce, è che il possessore di questa non abbia la possibilità di vendere merci nelle quali si sia oggettivato il suo lavoro, ma anzi, sia costretto a mettere in vendita, come merce, la sua stessa forza-lavoro, che esiste soltanto nella sua corporeità vivente. Affinché qualcuno venda merci distinte dalla propria forza-lavoro, deve, com’è ovvio, possedere mezzi di produzione, p. es. materie prime, strumenti di lavoro, ecc. Non può fare stivali senza cuoio. Inoltre, ha bisogno di mezzi di sussistenza. Nessuno, neppure un musicista avvenirista, può campare dei prodotti avvenire, quindi neppure di valori d’uso la cui produzione è ancora incompleta; l’uomo è costretto ancora a consumare, giorno per giorno, prima di produrre e mentre produce, come il primo giorno della sua comparsa sulla scena della terra. Se i prodotti vengono prodotti come merci, debbono essere venduti dopo essere stati prodotti e possono soddisfare i bisogni del produttore soltanto dopo la vendita. Al tempo della produzione s’aggiunge il tempo necessario per la vendita. Dunque, per trasformare il denaro in capitale il possessore di denaro deve trovare sul mercato delle merci il lavoratore libero; libero nel duplice senso che disponga della propria forza lavorativa come propria merce, nella sua qualità di libera persona, e che, d’altra parte, non abbia da vendere altre merci, che sia privo ed esente, libero di tutte le cose necessarie per la realizzazione della sua forza-lavoro. Per il possessore di denaro, che trova il mercato del lavoro come sezione particolare del mercato delle merci, non ha alcun interesse il problema del perché quel libero lavoratore gli si presenti nella sfera della circolazione. E per il momento non ha interesse neppure per noi. Noi teniamo fermo, sul piano teorico, al dato di fatto, come fa il possessore di denaro sul piano pratico. Una cosa è evidente, però. La natura non produce da una parte possessori di denaro o di merci e dall’altra puri e semplici possessori della propria forza lavorativa. Questo rapporto non è un rapporto risultante dalla storia naturale e neppure un rapporto sociale che sia comune a tutti i periodi della storia. Esso stesso è evidentemente il risultato d’uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molti rivolgimenti economici, del tramonto di tutta una serie di formazioni piú antiche della produzione sociale. [...] Ormai dobbiamo considerare piú da vicino quella merce peculiare che è la forza-lavoro. Essa ha un valore, come tutte le altre merci. Come viene determinato? Il valore della forza-lavoro, come quello di ogni altra merce, è determinato dal tempo di lavoro necessario alla produzione e, quindi anche alla riproduzione, di questo articolo specifico. In quanto valore, anche la forza-lavoro rappresenta soltanto una quantità determinata di lavoro sociale medio oggettivato in essa. La forza-lavoro esiste soltanto come attitudine naturale dell’individuo vivente. Quindi la produzione di essa presuppone l’esistenza dell’individuo. Data l’esistenza dell’individuo, la produzione della forza-lavoro consiste nella riproduzione, ossia nella conservazione di esso. Per la propria conservazione l’individuo vivente ha bisogno di una certa somma di mezzi di sussistenza. Dunque il tempo di lavoro necessario per la produzione della forza-lavoro si risolve nel tempo di lavoro necessario per la produzione di quei mezzi di sussistenza; ossia. il valore della forza-lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza necessari per la conservazione del possessore della forza-lavoro. Però, la forza-lavoro si realizza soltanto per mezzo della sua estrinsecazione, si attua soltanto nel lavoro. Ma nell’attuazione della forza-lavoro, nel lavoro, si ha dispendio di una certa quantità di muscoli, nervi, cervello, ecc. umani, la quale deve a sua volta esser reintegrata. Questo aumento d’uscita esige un aumento d’entrata. Se il proprietario di forza-lavoro ha lavorato oggi, deve esser in grado di ripetere domani lo stesso processo, nelle stesse condizioni di forza e salute. La somma dei mezzi di sussistenza deve dunque essere sufficiente a conservare l’individuo che lavora nella sua normale vita, come individuo che lavora. I bisogni naturali, come nutrimento, vestiario, riscaldamento, alloggio ecc., sono differenti di volta in volta a seconda delle peculiarità climatiche e delle altre peculiarità naturali dei vari paesi. D’altra parte, il volume dei cosiddetti bisogni necessari, come pure il modo di soddisfarli, è anch’esso un prodotto della storia, dipende quindi in gran parte dal grado d’incivilimento di un paese e, fra l’altro, anche ed essenzialmente dalle condizioni, quindi anche dalle abitudini e dalle esigenze fra le quali e con le quali si è formata la classe dei liberi lavoratori. Dunque la determinazione del valore della forza-lavoro, al contrario che per le altre merci, contiene un elemento storico e morale. Ma per un determinato paese, in un determinato periodo, il volume medio dei mezzi di sussistenza necessari, è dato. Il proprietario della forza-lavoro è mortale. Dunque, se la sua presenza sul mercato dev’essere continuativa, come presuppone la trasformazione continuativa del denaro in capitale, il venditore della forza-lavoro si deve perpetuare, “come si perpetua ogni individuo vivente, con la procreazione”. Le forze-lavoro sottratte al mercato dalla morte e dal logoramento debbono esser continuamente reintegrate per lo meno con lo stesso numero di forze-lavoro nuove. Dunque, la somma dei mezzi di sussistenza necessari alla produzione della forza-lavoro include i mezzi di sussistenza delle forze di ricambio, cioè dei figli dei lavoratori, in modo che questa razza di peculiari possessori di merci si perpetui sul mercato". (Marx, Il Capitale)