martedì 26 aprile 2016





L’ESSERE (2a parte)
Dunque la via del misticismo non solo non porta da nessuna parte, ma è carica di conseguenze nefaste al fine di un corretto uso della ragione. Per il quale uso resta interamente valido quanto affermato da Kant.
Ponendo chiari limiti alla ragione pura ed alla ragione pratica, si evitano certamente fughe in avanti del pensiero in una regione metafisica dove non esisterebbero confini per ogni tipo di fantasia o credenza.
Questi stessi limiti determinerebbero però, all’opposto, l’impossibilità di dare ragione ed espressione alla illimitatezza della realtà dell’essere. Una realtà che continua così a rimanere nascosta, questa volta a causa della presunta inconoscibilità della cosa in sé.
L’evidenza dell’apparire delle cose, degli enti, sarebbe in qualche modo negata. Se non proprio semplici nomi, come sosteneva Parmenide, ciò che appare verrebbe posto in una relazione problematica con l’essere concreto, con la cosa in sé.
Se è vero, come si diceva poc’anzi, che ogni possibile conoscenza non può prescindere dalla percezione sensoriale del qualcosa che è, è però altrettanto vero che i sensi sono facilmente inclini all’errore; sono, per loro intrinseca natura, fallaci.
E dunque, se non si può fare cieco affidamento su di una assoluta autonomia della ragione, neppure si deve presumere una infallibilità dei sensi secondo il modo di un empirismo ingenuo. Le conclusioni raggiunte dall’empirismo puro fanno il paio con quelle raggiunte da una metafisica misticheggiante. Dove l’essere è compreso come uno sfondo irreale su di un palcoscenico reale (la vita) che vede incessantemente ora l’apparire, ora lo sparire, della infinita molteplicità di cose ed eventi che costituiscono il mondo. Questo mondo che a sua volta può essere considerato empiricamente come la sola realtà vera o può essere considerato misticamente  come qualcosa di illusorio, avvolto com’è da un velo (il velo di Maia) che lo separerebbe dalla sostanza concreta dell’essere. Lo sfondo che costituisce la possibilità di ogni apparire continuerebbe in entrambi i casi a permanere in un alone impalpabile ed etereo.
Siamo in generale in presenza di una fede in una dimensione del reale eternamente diveniente. Una fede in cui non è avvertita la contraddizione di un eterno che rinuncerebbe alla sua natura di sostanza immutabile per mutare nelle infinite forme del divenire e di un divenire che condurrebbe ad una fissità eterna del mutamento.
Questa contraddizione che Nietzsche cercò vanamente di risolvere con la teoria dell’eterno ritorno ricorre costantemente alla base della cultura, di ogni tipo di cultura, dalla sua origine sino ai giorni nostri. Il linguaggio, che ne è l’espressione, ne rimane profondamente contaminato cosicché le definizioni dei concetti fondamentali per la conoscenza appaiono lontani dal cogliere il vero.
Termini come uomo, vita, coscienza, anima, mondo, storia, pace, guerra, bene, male etc…etc… assumono significati che non corrispondono alla verità dell’essere.
Forse anche per questo Parmenide considerava le cose del mondo come semplici nomi senza nessuna realtà. Fu per salvare il mondo dall’annientamento a cui sarebbe andato incontro tenendo per buona la tesi di Parmenide  che Platone fu costretto in seguito a concepire gli enti come divenienti, a considerarli in rapporto con l’essere fin tanto che essi apparivano ed un nulla quando essi non apparivano più.
Non un nulla assoluto (nihil absolutum) certo, ma un nulla comunque sufficiente a negare il radicamento eterno di ogni cosa all’essere. Così, ad esempio, si giunge all’assurdo per cui il tempo che segue la morte dell’individuo non appartiene più al tempo eterno entro il quale stava il limite temporale del vissuto dell’individuo. L’essere che ha determinato l’esistenza dell’individuo ad un certo punto lo abbandonerebbe in una dimensione senza tempo. Ciò in aperto contrasto con la sua propria natura che rende possibile il limite temporale di ogni ente e l’esistente stesso unicamente se determinati all’interno del non-limite (apeiron) caratterizzante l’eterno.

 
L'IMPOSSIBILITA' DEL DIVENIRE

La filosofia sin qui non ha visto come il pensare l’annientamento di ciò che non appare pregiudichi la possibilità stessa dell’essere dell’essere. Nel cui seno non può verificarsi l’annientamento di nessuna cosa, neppure della più piccola ed insignificante, e  di nessuno spazio temporale, neppure della infinitesimale parte di un attimo, se non a scapito dell’annientamento dell’essere stesso.
Per permettere ciò che erroneamente è visto come il divenire (ovvero l’oscillazione di ogni cosa dal nulla all’essere e dall’essere al nulla) occorre che il tutto conservi la propria integrità, che l’uno rimanga indivisibile. Per la fede nel divenire la parte è invece separata dal tutto e lo spazio temporale è separato dal tempo eterno.
Cosicché avremmo l’assurdo di un tutto mancante delle sue parti e di un tempo eterno impossibilitato a manifestarsi nei necessari limiti temporali della mondanità.
Data per evidente ed indiscutibile la premessa di un mondo diveniente, una premessa che andrebbe invece discussa perché il divenire del mondo è tutt’altro che evidente, è perfettamente comprensibile come le conclusioni che dovrebbero condurre ad una definizione dell’essere portino a strade senza uscita.
Per una ratio calcolante così come per la percezione sensoriale costituisce certamente un problema condurre la molteplicità delle cose e delle forme ad una unicità sostanziale. Per la metafisica basata sulla razionalità calcolante e per l’empirismo votato fiduciosamente alla capacità conoscitiva dei sensi, la diversità delle cose e degli enti che appaiono nel mondo sono difficilmente riconducibili alla identità. Il tentativo più alto di giungere alla identità dei diversi è dato dalla dialettica hegeliana , la quale tuttavia non si compie mai in via definitiva, ripetendosi all’infinito il movimento che vuole l’ assunzione dell’altro da sé nello stesso sé per superarlo in un superiore e nuovo sé. Proprio perché anche la dialettica di Hegel è partecipe della dimensione diveniente, non si dà una circolarità compiuta, nella quale si riconosca una volta per sempre l’unità del molteplice.
Secondo una armonia ed una gioia del tutto che sono iscritte nella verità dell’essere.
Ma che la cultura dominante, sin dai suoi esordi, non può scorgere in quanto deviata irrimediabilmente da un retto percorso logico in cui prevalga una razionalità che non sia quella scientifica. Una razionalità cioè che non si basi su di un processo ipotetico e falsificabile, ma che proceda avendo in sé come fine la ricerca  della verità, una ed incontrovertibile.
La discussione che siamo andati sin qui sviluppando non ha portato elementi del tutto nuovi rispetto a quelli già noti ai precursori della filosofia: ha tuttavia fatto proprie quelle analisi che conducono al punto fermo di una inconciliabilità tra l’essere ed il divenire. Che costituisce piuttosto una scelta di campo precisa che segna  un distacco rispetto alla maggior parte delle teorie formatesi lungo tutto il corso della storia della filosofia.
La nascita della filosofia coincide con l'evocazione del nulla quale concreta opposizione all'essere.
Il nulla non è più soltanto il positivo significare di sé ma è quel 'solido nulla' di cui parla Leopardi (il primo pensatore capace di scandagliare l'abisso del nichilismo sino a vederne le radici) .
Ma come è stato possibile considerare ciò che non appare come il nulla? La pre-esistenza di ciò che appare limitatamente nel tempo come il provenire dal nulla e la sua successiva esistenza come il ritornare nel nulla? L'esperienza non può testimoniare alcunché rispetto al passato di ciò che sopraggiunge e allo stesso modo del futuro che lo attende quando non è più presente allo sguardo di chi si trattiene nell'apparire.
Tanto basterebbe per impedire di affermare che il passato ed il futuro di ciò che appare siano il nulla, magari nella forma edulcorata del non essere. La distinzione tra nulla assoluto (nihil absolutum) e non essere la dice lunga sui dubbi che tormentavano  grandi pensatori come Platone ed Aristotele e tutti coloro che li hanno preceduti e seguiti.
Una differenza che avrebbe dovuto evitare l'errore del nichilismo: per quanto sottile e ben argomentata, tale differenza ha tuttavia la sembianza di un escamotage che non cambia la realtà delle cose.
La storia della filosofia è la storia del nichilismo e la distanza tra chi vede Dio e chi vede il Nulla, tra i naturalisti e gli spiritualisti, tra i nominalisti ed i realisti, tra i positivisti e gli idealisti è più legata alla forma che alla sostanza. Tutte teorie la cui distanza o opposizione è solo apparente, venendo meno rispetto alla stretta comunanza che le legano alla fede nel divenire, ovvero all'essere, tutte, di segno nichilista.
L'essere è la Totalità di ogni cosa, dell'apparire e del non apparire, ed in sé comprende come negato il nulla (la cui valenza sta unicamente nel suo positivo significare, ovvero nella necessità del suo nome perché il linguaggio possa dire dell'unica realtà dell'essere). In tal senso si può affermare, con Heidegger, che 'il linguaggio è la casa dell'essere'. Ma se per Heidegger l'essere è nella identità con l'apparire, fuori dal nichilismo, l'apparire è anche l'apparire della necessità del non apparire. Si vuol dire che il qualcosa di determinato in cui consiste sempre l'apparire esige una realtà più ampia della propria determinazione, una origine che la trascende e proprio perché trascendente, non appare.
Ma quando si pensa che il non apparire sia il nulla o il non-essere è quando non si riesce a comprendere come il non- apparire e l'apparire siano strettamente uniti nella totalità dell'Essere, ed il ciò che è (l'esistente) sia in stretta relazione con ciò che lo trascende, ovvero con tutto ciò che pur non apparendo non si può dire che non esista. Il fatto di non vedere una cosa non consente di affermare che questa cosa non esista.
Il nichilismo non riesce, come appena accennato, a comprendere come l'esistenza della singola cosa, dell'ente particolare sia possibile in quanto il proprio limite temporale e spaziale è il risultato del trascendentale. Il trascendentale (nome proprio dell'Essere) è l'illimitato, l'infinito. L'Eterno. L'esistenza di una cosa (il suo sopraggiungere nel cerchio dell'apparire) non inizia o termina con la sua presenza, in quanto essa è possibile per lo stare di ciò che la precede e la segue. E questo stare impedisce di concepire il prima ed il dopo di una presenza come assenza (ed in quanto tale come non essere o nulla).
Ma non potendo vedere il tutto (contraddizione C individuata da Emanuele Severino), non possiamo vedere la costituzione trascendentale che determina il limite della presenza temporale dell'ente.
Ci rimane così difficile comprendere come ogni cosa, dalla più piccola ed insignificante sino alla più grande e significativa, sia eterna. In quanto mortali, siamo abitatori del tempo e quindi costretti a misurare l'esistenza come successione di un prima, di un ora, di un dopo. Successione che non appartiene alla eternità dell'Essere e di tutta l'infinità di enti che lo costituisce.






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