sabato 5 marzo 2011

COMPRENSIONE DELL'ESSERE - 2

L'ESSERE (2a parte)

L’evidenza dell’apparire delle cose, degli enti, sarebbe in qualche modo negata. Se non proprio semplici nomi, come sosteneva Parmenide, ciò che appare verrebbe posto in una relazione problematica con l’essere concreto, con la cosa in sé.
Se è vero, come si diceva poc’anzi, che ogni possibile conoscenza non può prescindere dalla percezione sensoriale del qualcosa che è, è però altrettanto vero che i sensi sono facilmente inclini all’errore; sono, per loro intrinseca natura, fallaci.
E dunque, se non si può fare cieco affidamento su di una assoluta autonomia della ragione, neppure si deve presumere una infallibilità dei sensi secondo il modo di un empirismo ingenuo. Le conclusioni raggiunte dall’empirismo puro fanno il paio con quelle raggiunte da una metafisica misticheggiante. Dove l’essere è compreso come uno sfondo irreale su di un palcoscenico reale (la vita) che vede incessantemente ora l’apparire, ora lo sparire, della infinita molteplicità di cose ed eventi che costituiscono il mondo. Questo mondo che a sua volta può essere considerato empiricamente come la sola realtà vera o può essere considerato misticamente come qualcosa di illusorio, avvolto com’è da un velo (il velo di Maia) che lo separerebbe dalla sostanza concreta dell’essere. Lo sfondo che costituisce la possibilità di ogni apparire continuerebbe in entrambi i casi a permanere in un alone impalpabile ed etereo.
Siamo in generale in presenza di una fede in una dimensione del reale eternamente diveniente. Una fede in cui non è avvertita la contraddizione di un eterno che rinuncerebbe alla sua natura di sostanza immutabile per mutare nelle infinite forme del divenire e di un divenire che condurrebbe ad una fissità eterna del mutamento.
Questa contraddizione che Nietzsche cercò vanamente di risolvere con la teoria dell’eterno ritorno ricorre costantemente alla base della cultura, di ogni tipo di cultura, dalla sua origine sino ai giorni nostri. Il linguaggio, che ne è l’espressione, ne rimane profondamente contaminato cosicché le definizioni dei concetti fondamentali per la conoscenza appaiono lontani dal cogliere il vero.
Termini come uomo, vita, coscienza, anima, mondo, storia, pace, guerra, bene, male etc…etc… assumono significati che non corrispondono alla verità dell’essere.
Forse anche per questo Parmenide considerava le cose del mondo come semplici nomi senza nessuna realtà. Fu per salvare il mondo dall’annientamento a cui sarebbe andato incontro tenendo per buona la tesi di Parmenide che Platone fu costretto in seguito a concepire gli enti come divenienti, a considerarli in rapporto con l’essere fin tanto che essi apparivano ed un nulla quando essi non apparivano più.
Non un nulla assoluto (nihil absolutum) certo, ma un nulla comunque sufficiente a negare il radicamento eterno di ogni cosa all’essere. Così, ad esempio, si giunge all’assurdo per cui il tempo che segue la morte dell’individuo non appartiene più al tempo eterno entro il quale stava il limite temporale del vissuto dell’individuo. L’essere che ha determinato l’esistenza dell’individuo ad un certo punto lo abbandonerebbe in una dimensione senza tempo. Ciò in aperto contrasto con la sua propria natura che rende possibile il limite temporale di ogni ente e l’esistente stesso unicamente se determinati all’interno del non-limite (apeiron) caratterizzante l’eterno.
Alberto Re

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