sabato 19 marzo 2011

COMPRENSIONE DELL'ESSERE - 4


IL PREVALERE DELL'ERRORE

Che una cosa appaia o non appaia è volontà del Destino. La sola Volontà che ottiene ciò che vuole.
E ciò che vuole è innanzitutto lo stare dell'Essere: lo stare che per essere tale esclude con verità (ovvero con la propria incontrovertibile e non smentibile realtà) la possibilità del divenire delle cose, misurandone l'estrema follia quando si pensi che tale possibilità esista. Di più sia l'evidenza indiscussa. Da parte dell'esistente non esiste un suo provenire dal nulla, il trattenersi limitato e provvisorio nel tempo ed infine il suo ritornare nel nulla. Nascita e morte, così come significati dal linguaggio prodotto dal nichilismo, non esistono. La stessa esistenza, in quanto fuori (ex) dallo stare dell'essere (sistere) non è l'esistenza testimoniata dalla verità dell'essere. Anche ciò che esiste, per il nichilismo ossia per ogni forma di cultura sin qui prodotta dall'uomo, esiste come separato dall'essere. Nel sottosuolo del nichilismo, l'esistenza non è. Ma dal momento che il nichilismo non è in grado di riconoscere se stesso perché dovrebbe riconoscersi come pura ed estrema follia, deve pensare una tale proposizione come un non senso e quindi rifiutarla sotto l'aspetto della razionalità.
Tuttavia quanto cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. E così la follia si maschera dietro 'il velo di Maia' delle filosofie orientali secondo le quali l'esistenza è una illusione e se non è illusione non è neppure vita vera perché la vita vera viene dopo questa che viviamo sulla Terra (Cristianesimo).
Vi è una ragione ed una sola per spiegare la nascita delle religioni: la necessità di mascherare la Follia e l'Errore prodotti dal Nichilismo (il nichilismo, per quanto debole e sfumato, preesiste all'avvento della Filosofia: la grandezza della Filosofia è quella di aver portato alla luce ciò che, la fede nel divenire, era stato sin lì nascosto o travisato) sino a presentare l'una e l'altro nel loro opposto che è insieme la loro negazione: la Follia diventa Ragione Suprema e l'Errore diventa Verità.
Proprio là dove si predica la non-violenza, la pace, la fratellanza, etc vi è la radice più salda da cui trova sostegno la violenza .
Perché la violenza scaturisce là dove vi è l'errore e diventa incontenibile quando, con volontà perversa, l'errore è presentato come verità.
Si deve allora dire che le Religioni, in primis le Religioni monoteiste, sono la forma più esplicita e più grave della perversione umana.
Vero che anche la Metafisica ha avuto la sua parte nel pervertire la ragione umana, ma il suo percorso è sempre stato contraddistinto dalla prudenza dei filosofi nell'esporre il proprio pensiero. Ogni teoria filosofica non è mai stata data come verità assoluta, tanto chè in ognuna vi si trovano elementi di ponderazione, di interrogazione, di sospensione dal giudizio, etc...che inducono il lettore ad esercitare quello che Cartesio chiamerà 'dubbio metodico'.
A nessun filosofo, insomma, è mai venuto in mente di presentarsi come figlio di dio...
Siamo giocoforza costretti ad usare un linguaggio fortemente contaminato dalla fede nel 'divenire'. Per dar conto dell'essere occorre fare i conti con un linguaggio che non è tale da dare una ‘ragione’ comprensibile alla realtà ed identità dell’essere. Il linguaggio umano si è in vero formato unicamente in relazione a ciò che appare, al manifesto di cui si ha esperienza. La possibilità di una comunicazione in cui gli interlocutori comprendano allo stesso modo il significato della parola detta o scritta è data ove la parola si riferisca ad un qualcosa di semplice e di concretamente sensibile. Se dico ‘neve’ posso con certezza aspettarmi che il mio interlocutore comprenda il significato del termine ‘neve’ allo stesso modo con cui lo comprendo io. Ma se parlo, ad esempio, di ‘anima’ non posso aspettarmi la stessa comprensione che io ho del significato di ‘anima’ da parte del mio interlocutore. Quando ci si riferisce a dei termini astratti stabiliamo una comunicazione in cui riveste una grande rilevanza il carattere della interpretazione soggettiva, non venendo in questo caso in aiuto l’oggettività concreta della cosa capace di essere percepita attraverso i sensi.
Non a caso quella sul linguaggio è diventata una componente prevalente nello studio della filosofia contemporanea. E l’ermeneutica, da originario studio dei testi sacri, si è estesa sino a comprendere l’analisi dell’intera struttura semantica del linguaggio.
Come si può ben intuire, i problemi che si pongono sono estremamente complessi.
Va da sé che il linguaggio parlato dalla scienza non sia idoneo a parlare dell’essere. Il linguaggio che accompagna la ragione nella comprensione del suo percorso scientifico non è infatti lo stesso linguaggio in grado di accompagnare la ragione nella comprensione dell’essere.
In altri termini, il linguaggio che parla del divenire delle cose possiede una struttura semiotica e semantica altra dalla struttura linguistica atta a significare dell’essere.
E, come l’essere, avente il segno della fermezza ed immutabilità.
Questo linguaggio, che non possiamo definire come nuovo perché da sempre conservato nell’eternità dell’essere, comincia ad apparire. Un suo accenno è già nelle parole che testimoniano di un problema ignorato da ogni tipo di scienza e che abbiamo posto nei termini di ‘una comprensione dell’essere’.
Un compito che non può essere affidato che alla ragione. La quale, allo stato attuale del suo sviluppo e della sua conformazione, non è però in grado di assolvere. Poiché oggi la ragione parla con le parole della scienza e della tecnica, ogni tentativo di affrontare il tema finisce inevitabilmente per alimentare il contrasto con l’esperienza e con la struttura interna del linguaggio stesso. Che essendo direttamente in relazione con l’apparente mutare degli enti esperiti, spiega già il contrasto che attualmente una razionalità diversa da quella scientifica avrebbe nel suo rapporto con l’esperienza e la realtà.
Il contrasto tra ragione ed esperienza di cui si faceva cenno all’inizio della trattazione non ha bisogno dunque di ulteriore spiegazione, stante l’analogia che tale contrasto ha rispetto alla struttura del linguaggio: tema sul quale riteniamo di avere sufficiente riferito.
Il modo in cui oggi come ieri è accolta la realtà attraverso la percezione dei sensi (il modo dell’esperienza) e la sua traduzione linguistica (il modo prima della metafisica e poi dell’indagine scientifica) non è il modo attraverso il quale può essere accolta la realtà dell’essere.
Che per la metafisica certamente costituisce lo sfondo necessario ed immutabile che permette il divenire degli enti, ma secondo un processo in cui viene marcata la differenza ontologica tra l’essere e l’ente che appare. L’ultimo tratto del percorso della metafisica parla così con Heidegger di un ‘oblio’ dell’essere, che è una maniera elegante di mostrare l’alterità dell’essere rispetto all’ente. Con il risultato finale di una vita dell’uomo come vita alienata, deviata dal retto percorso che già la Dea della Giustizia aveva indicato a Parmenide come l’unico percorribile ogni caso per la filosofia, anche quando non vuol essere metafisica, l’essere continua a rimanere una realtà ineludibile e pertanto punto centrale della propria ricerca.
Contrariamente a quanto accade nella scienza, la quale, al fine di permettere il maggior dispiegamento della propria volontà di potenza, decide di ignorare il problema. Che vi sia o meno un essere immutabile ed eterno le rimane indifferente.
Di più, la possibilità che esista un essere siffatto sarebbe di ostacolo per la propria indagine conoscitiva, che esige invece una disponibilità e divisibilità infinita delle cose. Una disponibilità e divisibilità della cose che costituisce anzi la condizione stessa della possibilità dell’esistenza di una scienza.
Quale che sia il punto di partenza o l’angolo di visione, la conclusione è sostanzialmente la stessa: che l’essere si sottrae ad ogni definizione compiuta ed il significato che gli si vuole attribuire appare incerto ed instabile.
La causa della effettiva inconoscibilità dell’essere non è data, a parere nostro, dai limiti della ragione umana (secondo quanto rilevato da Kant), ma, come abbiamo sin qui cercato di dimostrare, da un particolare uso della ragione.
Quel particolare uso che scaturisce quando sulla ragione prevale la forza della volontà. Al di là e prima di ogni rapporto con l’esperienza e con la struttura linguistica che ne deriva, sta il rapporto con ciò che determina prevalentemente l’ego ed il mondo che sta davanti ad un ego così determinato: la volontà, che è sempre volontà di potenza.
Alberto Re

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