martedì 25 gennaio 2011

E' POSSIBILE LA FELICITA' ?


La domanda che ci siamo posti nel titolo è antica quanto l’uomo, anche se si presenta viva nella sua coscienza solo a partire dalla nascita della filosofia. Sono quel genere di domande alle quali la ragione umana non ha mai saputo dare risposte definitive e soddisfacenti. Anche se nel nostro caso, per dire la verità, delle risposte sono state date e tutte o quasi sono state di segno negativo. La loro traduzione sintetica è che ‘La felicità sulla terra non è possibile’. Tanto che, come diceva il mitico Sileno (riportiamo a memoria), ‘Meglio sarebbe non essere mai nati, ma dal momento che si è nati la cosa preferibile è la morte’. Sui rari momenti di felicità (quando ci sono) prevale di gran lunga il tempo del dolore e dell’angoscia. Se dolore ed angoscia non sono per lo più avvertiti sensibilmente nella carne e nello spirito dell’uomo, è solo perché questi vive in una specie di condizione ipnotica, trattenendosi in quella caverna di cui parla Platone e che rappresenta il mondo della illusione.
La realtà che si presenta a chi riesca ad uscire dalla caverna non è però quella della perfezione delle idee e dell’eternità del tutto di cui parla sempre Platone. L’uomo storico e vivente, anche quando esce dal mondo delle illusioni, non vede nessun Dio che lo protegga da quel divenire delle cose, dal loro venire dal nulla e ritornarvi, che costituisce la sua sensazione concreta e primaria. Il voler vedere un Dio che salva dall’annientamento delle cose ed in primo luogo dall’annientamento di sé stessi ha costituito e costituisce certo l’atteggiamento predominante delle masse popolari che si configura nell’adesione alla forma escatologica delle religioni, ma tale atteggiamento è pur sempre un ritorno a quel mondo illusorio dal quale si vorrebbe fuggire. La verità non corrisponde a valori quantitativi o alla maggioranza numerica di qualsivoglia opinione. La verità dice oggi come ieri che l’uomo è solo sulla terra ed ognuno è destinato a sopportare nella solitudine il peso della propria finitezza mortale. Quello che neanche il più profondo degli inconsci può nascondere è, come si accennava, la sensazione angosciosa che scaturisce dal vedere la dominazione dell’essere da parte del divenire delle cose. L’impossibilità di com-prendere l’ essere (che, con Parmenide, è l’unica realtà com-prendente la totalità ed eternità della infinita molteplicità delle cose) da parte dell’esserci (esistenza), produce di converso la fede nella infinita possibilità ed imprevedibilità dell’accadimento di ogni evento, cosa, fatto. In una parola, di ogni ente. Abbiamo qui parlato di fede, non di verità. Ma la distanza tra fede e verità è la stessa distanza (opposizione) che sta tra la verità e l’errore. Se la constatazione del divenire è una fede, allora è anche un errore.
Eppure in tutta la storia della filosofia non è stata neppure sfiorata la eventualità che ciò che si presenta come l’evidenza suprema (il divenire delle cose) possa essere messo in discussione. Tanto meno è messo in discussione oggi, nel tempo in cui il mondo è dominato da quell’apparato scientifico e tecnologico che sul fondamento del divenire trova la sua ragione d’essere.
La tecnica si propone con tutta la sua straordinaria ed efficace volontà di potenza di riuscire là dove mito, filosofia e religione hanno fallito: eliminare dal cuore dell’uomo il terrore nei confronti del nulla e l’angoscia che è il sentimento prevalente del suo ‘esserci’ nel mondo. La tecnica riuscirà pure a percorrere interamente la via che condurrà al paradiso sulla terra : questa è comunque la via che nel momento storico che viviamo sta percorrendo l’umanità, non importa se ne sia o meno consapevole. Se dunque il termine del viaggio è il Paradiso, sarebbe lecito supporre che durante il cammino progressivamente decrescano angoscia e paure, e crescano felicità e serenità.
Ma quel che avviene è, senza ombra di dubbio, l’esatto contrario. Già rispetto all’uomo del medioevo che qualche certezza l’aveva (a cominciare da quella di ritenersi al centro dell’universo, il cosiddetto antropocentrismo), nell’uomo contemporaneo cresce giorno dopo giorno l’incertezza per il futuro, accompagnata dai dubbi sul senso della vita che lacerano il suo presente.
Aspettando il Paradiso, l’uomo diventa sempre più una cosa tra le cose in mano alla capacità manipolatrice e trasformatrice della tecnica. L’alienazione di cui parla Marx, il caos annunciato da Nieztsche sono poca cosa rispetto alla progressiva disgregazione di qualsiasi senso che si possa dare al concetto di ‘umano’.
Poiché la scienza non si riconosce nella ricerca della verità (dovendo questa possedere quel carattere definitivo ed incontrovertibile che si porrebbe in netto contrasto con la imprevedibilità del divenire, che rappresenta invece, come direbbe Aristotele, il sostrato su cui poggia la possibilità stessa della scienza), lo spazio che viene aperto è quello della opinabilità che segue il carattere specifico e frazionato nel quale si dividono i campi della indagine scientifica. Così se per l’empirismo l’uomo è il risultato del suo agire, per la psicoanalisi è la conseguenza del proprio inconscio.
Ed ancora per la biologia è la compiuta unità originata dalla particolarità del proprio DNA, a differenza della sociologia per la quale l’uomo è fondamentalmente funzione dell’ambiente in cui si trova a vivere. Si potrebbe continuare ancora a lungo, ma ritengo che questi esempi possano essere sufficienti a mostrare come oggi non esista per il concetto di ‘uomo’ una definizione univoca e valida per tutti.
Ciò che può apparire come una digressione rispetto alla domanda posta nel titolo, ha invece una sua giustificazione precisa. In quanto il soggetto (o l’oggetto) rispetto al quale poniamo l’interrogativo se possa o meno essere felice risulta indefinito e dai contorni confusi, allora la risposta non può essere data. Prima di ogni altra considerazione, la possibilità che un ente (nel nostro caso, l’uomo) possa essere una cosa piuttosto di un’altra, possa ricevere o meno un attributo o una qualità, dipende dalla condizione a-priori che quell’ente sia in grado di riconoscere la propria identità e natura (se è un soggetto) o di un certo ente si sia in grado di riconoscere in via definitiva e certa la propria sostanza e funzionalità (se è un oggetto).
Poiché la nostra indagine si riferisce ad un soggetto, è necessario che quel soggetto abbia piena coscienza di sé, si sappia come un ente particolare rispetto ad ogni altro ente che incontra nel mondo. La particolarità è accertata nel momento in cui l’ente particolare (l’uomo) acquisisce la consapevolezza di pensare se stesso, di pensare il pensiero. E, a questo punto, di porre il pensiero al di fuori e al di là del meccanismo razionalista imperante nel metodo della scienza.
Così facendo si mette in grado di recuperare l’antica posizione che in tempi lontanissimi lo aveva messo davanti al bivio dal quale si dipartivano due vie. La prima indicava lo stare dell’eternità dell’essere e del legame indissolubile di ogni cosa con l’essere stesso: la via, che per essere la via della verità, è anche quella della felicità e della gioia.
La seconda, sulla quale è caduta la scelta dell’essere umano, è la via della fede nel divenire: la via dell’errore e quindi del dolore, dell’angoscia, della infelicità. Che è poi la via che segna il tragitto che avrebbe portato alla civiltà della tecnica, ovvero alla dimensione attualmente esistente, e che con ogni probabilità porterà ad un Paradiso che non poggiando su criteri di verità bensì ipotetici, avrà in sé sempre la possibilità di trasformarsi in Inferno. Per questo motivo è ancora di là da venire l’angoscia estrema, insopportabile.
Ma il ritorno al punto di partenza dal quale si dipartono le due vie sopracitate non è un qualcosa che dipenda dalla volontà dell’uomo per la semplice ma sostanziale ragione che la volontà è uno dei modi, forse quello prevalente, in cui si manifesta la fede nel divenire, e quindi è l’errore originario da cui si generano la follia e il dolore.
Neppure la ragione, anche quando sia liberata dalle catene di un razionalismo calcolante e matematico che è proprio di tutte le scienze, può decidere per la via della verità e della gioia. Perché, daccapo, il decidere, la cui radice semantica è la stessa dell’uccidere, è il movimento attraverso il quale le cose vengono separate e così separate si tengono isolate le une dalle altre. Un processo, anche questo, che appartiene alla fede di un mondo diveniente.
Il momento storico che vive l’umanità non lascia vie di scampo: è destino che il dolore, l’angoscia, l’infelicità, la follia accompagnino ancora per molto tempo l’esserci dell’uomo nel mondo. Solo quando il tempo sarà avvertito come parte unita all’eterno, come lo spazio entro il quale l’eterno avrà la sua piena manifestazione, solo allora l’essere per la morte in cui consiste la vita assumerà un significato radicalmente diverso. Un significato che non parlerà con le parole del linguaggio attuale, anch’esso inserito in una dimensione diveniente (si vedano al riguardo le tesi della linguistica contemporanea), ma parlerà con le parole che sapranno tradurre un pensiero legato strettamente al senso veritiero del Destino.
E’ attraverso la comprensione del Destino, della sua Volontà come la sola veramente potente che l’ente che chiamiamo ‘uomo’ saprà del suo ‘esserci’ come necessariamente legato all’essere, nel modo veritiero con cui l’esserci nell’essere è ciò che è votato (destinato) alla gioia eterna. Ciò che è dato all’uomo della storia, all’uomo così come oggi è configurato, è quello che Heidegger chiama ‘oblio’ dell’essere, il suo ‘nascondersi’. Ma ciò che Heidegger e, fatta eccezione per Emanuele Severino, tutta la filosofia contemporanea non contempla, è che all’uomo è data anche la possibilità del rimanere in attesa che si compia quello che il destino vuole che si compia. Questo rimanere in attesa, se non può ottenere la felicità, apre però l’orizzonte entro il quale potrà darsi la comprensione dell’essere, che allora uscirebbe dal proprio nascondimento per mostrarsi come la gioia del tutto.
alberto re

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